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Una domanda al Pd: ricordate Berlinguer?

Alle donne e agli uomini, vecchi e anche giovani, che si sbracano per un Pd che non mi pare sia un partito con una precisa identità benché pretenda d’essere di sinistra democratica moderna, mi permetto rivolgere tre domande in una: “Secondo voi, perché Enrico Berlinguer, nell’autunno di quarant’anni fa, con quattro articoli su Rinascita, lanciò la teoria del ‘compromesso storico‘; lo fece per tattica o badando ad un progetto a lungo termine; e, oggi, il derivato Pd saprebbe accettare le conseguenze logiche di quella ‘svolta’ non condivisa dal corpaccione d’un partito che credeva alla propria diversità antropologica?”.

Onde evitare fraintendimenti, preciso – a chi non mi conosca – che io non sono mai stato comunista; sin dal luglio 1943 sono stato e resto democristiano; non ho lezioni da dare ad avversari di sempre che non ho mai trattato in maniera truce; e tuttavia possiedo quel pizzico di esperienza politica, anche d’un qualche impegno, che mi induce a rivolgere le predette domande per cercare di non trovarmi, dopo otto lustri, in un’Italia non molto diversa da quella delle contrapposizioni frontali e improduttive che Berlinguer, un avversario leale per me, tentò di ribaltare: sul piano culturale, politico e storico.

Nel 1973 il Pci era il secondo partito italiano, dopo la Dc e prima del Psu, eletti con legge proporzionale senza premio di maggioranza. Il centro-sinistra, dopo l’unificazione socialista nata in funzione di alternanza democratica al partito fondato da De Gasperi, era in via di consunzione. Il IV governo Rumor, un quadripartito creato a luglio, a settembre già galleggiava. La tesi demartiniana sugli equilibri più avanzati era raccolta parzialmente ma non convintamente dagli ex socialisti autonomisti. Il Pci era isolato; molti dirigenti centrali del partito s’erano già spesi a favore di un rimescolamento di carte che potesse realizzarsi attraverso la rinuncia alle antiche gabbane e la confluenza in un unico partito “laborista” di tutti i movimenti di sinistra esistenti in Italia: l’unico dubbio, certo non marginale, che frenava i fautori di un tale “laborismo” era dato dalla collocazione internazionale, filosovietica, dei proponenti, mentre i socialisti filocomunisti italiani, facevano parte della socialdemocrazia europea, decisamente anti-Urss.

L’11 settembre i militari golpisti del generale Augusto Pinochet avevano soffocato nel sangue la primavera cilena del socialista Salvador Allende coi suoi compañeros comunisti e cattolici di sinistra difendendo il Palazzo della Moneda, il parlamento di Santiago. Allende disponeva di poco più del trenta per cento dei voti popolari. Alleandosi coi movimenti radicaloidi ed estremistici, non aveva voluto contrarre una alleanza strategica coi democristiani di Eduardo Frei (già presidente della repubblica e noto in America Latina per le sue riforme in campo agrario); e pensava di tenere alta la tensione rivoluzionaria opponendosi alla protesta dei camionisti e delle massaie. La giunta militare di Pinochet non si limitò a sbaragliare i gruppi marxisti; mise fuori legge anche la Dc di Frei, non riuscendo tuttavia a dividerla.

Traendo spunto dalla sconfitta dell’unione popolare cilena che aveva contrastato anche il piccolo ceto medio, le massaie e i contadini che s’erano conquistato, con l’aiuto di Frei, la proprietà delle terre da loro coltivate e quella dei piccoli mezzi di trasporto coi quali lavoravano, Berlinguer – nell’evidente imbarazzo di una nomenclatura comunista italiana che, al più, credeva in un frontismo egemonizzato dal Pci o, con Amendola, ad un laborismo del quale il vecchio Pci avrebbe pur sempre costituito lo zoccolo duro -, sostenne che, in un Occidente democratico, una sinistra riformatrice non avrebbe potuto assumere la leadership dell’Italia neppure col 51 per cento dei consensi popolari.

Ecco cosa scrisse Berlinguer su “Rinascita”: “Il Pci non punta ad una alternativa di sinistra, ma ad una alternativa democratica,… cioè alla prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico come le cattoliche”. E dichiarò che la via democratica al socialismo “richiede il consenso della maggioranza della popolazione… Non basta avere il 51 per cento, e non solo della classe operaia”. Il successivo comitato centrale del Pci, come ebbe a notare con sincero interesse Albertino Marcora, vicesegretario nazionale della Dc, fece propria la nuova linea berlingueriana, giudicando “imprescindibile il ruolo della forza popolare della Dc nel mantenimento e nel rafforzamento dello Stato democratico, di non credere alla validità di una maggioranza risicata del 51 per cento incardinata su un utopistico fronte rosso”.

La Dc non accolse la proposta di un “compromesso storico”, per l’opposizione dei dorotei; ma colse lo spirito che pareva animare gli scritti di Berlinguer. Il quale, anzitutto, dichiarava di non intendere continuare in una politica di contrapposizione e di antagonismo, suggerendo un’inedita fase, di pacificazione nazionale tra le forze espressive e rappresentative di realtà popolari che, pur restando tra loro distanti, potevano collaborare a quella che già De Gasperi (e nel 1976 Moro) aveva definito “democrazia dell’alternanza”.

Rimaneva tutta da chiarire la collocazione del Pci nei rapporti con l’Urss, da una parte, e con la socialdemocrazia europea (compreso il laburismo britannico), dall’altra. Ma intanto Berlinguer si era pronunciato a favore di un dialogo serio con la controparte: una Dc che oltre tutto riscuoteva più consensi popolari dei comunisti; come continuò ad accadere sino al 1992. Allora le tesi berlingueriane, pur fatte proprie dal Cc del Pci, all’interno di quel partito incontrarono più oppositori e dissensi che consensi. Nel 2013, con un Pd che si considera postcomunista e ha già da decenni assaporato il miele (ma anche l’amaro) del potere, sembra impossibile che non si siano fatti grandi passi in avanti neppure sulla premessa della prospettazione di Berlinguer: la pacificazione nazionale e il riconoscimento dell’agibilità politica di tutti i soggetti in campo; anche solo per giustificare il nome di partito democratico.

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