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Perché gli Emergenti sono imbufaliti con Bernanke

Per gentile concessione dell’editore e degli autori, pubblichiamo il commento di Mario Lettieri e Paolo Raimondi uscito sul quotidiano Italia Oggi.

Quest’anno alla riunione informale dei banchieri centrali di Jackson Hole nello Stato del Wyoming di fine agosto è stata la defezione del governatore delle Federal Reserve, Ben Bernanke, a fare notizia. Bernanke non ha potuto presentarsi perché tutti avrebbero chiesto lumi sulle azioni future della Fed in merito al «Quantitative Easing» (QE).

Si ricordi che l’anno scorso, invece, il governatore teorizzò con grande enfasi la «teoria di una nuova politica monetaria non convenzionale». Subito dopo si è concretizzata negli Usa con la terza operazione di QE e l’immissione di 85 miliardi di dollari al mese per l’acquisto da parte della Fed di nuove obbligazioni del Tesoro e di altri titoli bancari meno solvibili quali i derivati asset-backed-security.
Tale scelta non può durare all’infinito, perciò il problema è: come fermare le rotative della Fed? Con quali conseguenze? In Europa, pur pagando un prezzo salato, si è capito che i danni di una finanza drogata sono enormi e hanno inciso non poco sul debito pubblico.

Dopo un anno di tanta nuova e facile liquidità, i risultati anche per l’economia americana di fatto sono quasi nulli. Però vi sono molti effetti destabilizzanti generati soprattutto nei Paesi emergenti. La liquidità confluita dai Paesi occidentali ha stimolato il grande appetito del rischio. Si sono così create bolle immobiliari, sacche di crediti facili, speculazioni su monete e su commodity, su materie prime e prodotti agricoli.

In pratica la politica del «Quantitative Easing» si è rivelata una trappola che ha spinto i tassi di interesse vicino allo zero e prodotto addirittura una perdita, al netto dell’inflazione, per i tradizionali investitori.
Non sono pochi, infatti, coloro che, persino nella dirigenza del Federal Reserve System, sostengono che tale politica non ha aiutato la ripresa interna. Altri rappresentanti della Fed hanno però ricordato che la Fed fa soltanto gli interessi degli Usa e che gli altri Paesi dovrebbero prenderne atto.
Quando a maggio Bernanke ha appena accennato alla possibilità di uscire dal QE, i mercati sono entrati subito in fibrillazione. E’ quello che succede ad un drogato che, prima lo si è tenuto «sotto controllo» aumentando la dose, e poi si decide di non fornirne più.

Nelle economie emergenti, l’aspettativa di un cambiamento della politica monetaria della Fed sta scatenando una fuga di capitali tanto che si parla di una «crisi d’estate» per Paesi come l’India, il Brasile, il Sud Africa, la Turchia e l’Indonesia. Dall’inizio dell’anno a oggi le loro monete hanno subito impressionanti svalutazioni che vanno dall’8% per la rupia dell’Indonesia, al 15% per quella dell’India fino al 20% per il real brasiliano.

Sembra che i governi interessati stiano approntando azioni di difesa. In particolare, il banchiere centrale del Brasile ha dovuto disertare Jackson Hole proprio per preparare un programma di emergenza di ben 60 miliardi di dollari a sostegno della valuta nazionale.
Dall’inizio di maggio le riserve delle banche centrali dei Paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari a causa di fughe di capitali e per interventi di stabilizzazione dei mercati valutari. Anche i loro mercati azionari avrebbero perso 1 trilione di dollari!

A Jackson Hole la stessa direttrice del Fmi Christine Legarde, riferendosi alle nuove crisi nelle economie emergenti, ha dovuto ammettere che «siamo in una nuova pericolosa fase che potrebbe far deragliare la fragile ripresa» e che le attuali riverberazioni sui mercati finanziari «potrebbero ritornare dove hanno avuto origine», cioè negli Usa.
Non è una bella prospettiva, perciò sarebbe opportuno che in tempi brevi i governi del G20, non solo Obama, riflettessero seriamente sul «che fare» e agissero di conseguenza.


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