“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta”.
Le nubi si addensano all’orizzonte. Una nuova crisi istituzionale si profila.
Cosa può fare colui che ha il compito di garantire l’unità nazionale e, per quanto possibile, la stabilità dei governi designati? Nominare quattro senatori a vita in aiuto al governo Letta o ad un eventuale Letta bis? Anche.
La recente nomina di Abbado, Cattaneo, Piano e Rubbia ha sicuramente un sottotesto tutto politico. Quattro senatori a vita in un colpo solo erano stati nominati soltanto da Luigi Einaudi e da Francesco Cossiga, senza alcuna crisi dietro l’angolo.
Ma il Presidente della Repubblica fa politica? La fa, la fa. A modo suo, s’intende.
Posto dai Costituenti ai vertici della tripartizione dei poteri (nomina i membri del governo, presiede il CSM, può sciogliere le Camere), la figura del Presidente è stata concepita come strumento di armonizzazione e stabilizzazione del binomio parlamento-governo.
E quando si tratta di nominare un governo, lo scopo perseguito è chiaramente di individuarne uno che possa godere della fiducia del parlamento e che possa goderne il più a lungo possibile.
La stabilità e il carattere duraturo dell’esecutivo sono valori che rispondono all’interesse della Nazione. Senza stabilità e durata vi sono solo disordine e caos istituzionale.
E’ dunque ammissibile che la nomina di senatori a vita risulti strumentale a questi obiettivi, anche in spregio al carattere elettivo che contraddistingue le moderne democrazie?
Assolutamente sì. Soprattutto quando le regole elettorali non assicurano governabilità come accade con il porcellum (pensiamo solo al premio di maggioranza spalmato su base regionale in Senato, che difficilmente può dare risultati in linea con quelli della Camera, ove il premio è attribuito invece a livello nazionale) e risultano tali da sottrarre comunque all’elettore la scelta dell’eletto (rimessa invece alle segreterie dei partiti attraverso le liste bloccate).
Il porcellum, reintroducendo un sistema proporzionale che può dare origine a risultati diseguali nelle due Camere, ha riportato indietro la nostra democrazia ad un regime di c.d. parlamentarismo compromissorio, ossia quella forma istituzionale – che si suole distinguere dal c.d. parlamentarismo maggioritario o bipolare – in cui il governo nasce da un compromesso fra maggioranza e minoranza.
La nomina dei quattro nuovi senatori a vita si inserisce idealmente in questo compromesso.
Il PDL non è affatto contento e sostiene che in tal modo si miri solo a puntellare la claudicante maggioranza che in Senato sostiene il Governo Letta. Ma il compromesso l’ha imposto lo stesso PDL introducendo l’attuale legge elettorale, per cui non ha senso oggi reclamare.
Quel che importa, è comprendere che non c’è nulla di cui scandalizzarsi se tali nomine finiscono per assumere un significato politico.
La prerogativa presidenziale di scelta di cinque senatori a vita ha fatto molto discutere l’Assemblea Costituente.
A chi sosteneva che vi fossero personalità di altissima esperienza e valore, che per il loro temperamento od il loro ufficio non vogliono o non possono prendere parte alle competizioni elettorali e che sarebbe stato inopportuno privare il Parlamento dell’apporto di tali uomini, si contrapponeva chi riteneva inammissibile qualsiasi deroga alla rappresentanza elettiva.
L’esiguo numero che sarebbe stato concesso al Presidente (cinque) e la levatura dei soggetti papabili, convinse infine l’Assemblea che non vi sarebbe stato alcun vulnus alla democrazia.
Anzi, aggiungiamo noi, nel complesso ne esce un interessante istituto capace di coniugare democrazia e meritocrazia, categorie che il più delle volte non vanno affatto d’accordo.
La stessa stabilità dell’esecutivo come fine ultimo delle nomine presidenziali non è affatto estranea al testo costituzionale poi approvato. Nel corso dei lavori, l’onorevole Pietro Bulloni rilevò come fosse evidente che il potere del Presidente “non può avere solo una funzione decorativa (…); per garantire una relativa stabilità di governo, occorre attribuire dati poteri al Capo dello Stato”.
Quindi, o concordiamo sul fatto che il Presidente deve designare un governo che duri ed assicurare, nei limiti delle funzioni attribuitegli, la sua stabilità nel tempo, oppure non siamo in grado di comprendere cosa significhi, a fronte di una legge elettorale vergognosa e delle lacune che ne emergono, servire l’unità e l’interesse nazionale.
Questo non è il governo che avremmo voluto. E’ chiaro. Ma questo governo deve restare in piedi, fintanto che, almeno, non venga rivista la legge elettorale.
E fino ad allora, l’attuale Capo dello Stato è l’unica garanzia che abbiamo.