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Renzi perde la guerra con i baroncini

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’articolo di Bonifacio Borruso apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Matteo Renzi rottami quello che vuole ma lo faccia, per cortesia, fuori dalle mura delle università. Un po’ come la Celere quando in facoltà si fa a cazzotti fra studenti per motivi politici: ci vuole sempre l’autorizzazione del rettore per entrare e comunque sarebbe meglio che stesse fuori.

Un’incursione del sindaco fiorentino in ambito accademico, sta infatti provocando la risposta stizzita di un po’ di docenti universitari fra i più impegnati e spesso a sinistra.
Per la verità Renzi, venerdì scorso, ospite di Lilli Gruber alla vigilia dell’assemblea del suo partito, per la verità, anziché fare a pezzi o asfaltare, aveva proposto di costruire: «Le pare possibile», aveva detto a chi lo intervistava, «che la prima università italiana in una classifica internazionale sia 188ma?

Come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub (incubatori, ndr) della ricerca?». E se toccando le classifiche internazionali, invise ai più, e il pessimo piazzamento degli atenei nostrani aveva fatto alzare le sopracciglia di molti, col resto della frase s’era giocato un po’ di elettori: «Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi c’ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l’amico a insegnare…».

Il tema delle università sotto casa dà infatti l’orticaria a molti opinionisti e commentatori accademici, in genere di sinistra, che vedono dietro questo argomento il cavallo di troia del pensiero più reazionario sull’università, quello dei tagli lineari e degli editoriali di Francesco Giavazzi sul Corsera.

E infatti già domenica sera, il documentatissimo Roars.it, portale dell’orgoglio universitario, aveva già conciato il Rottamatore per le feste, mostrando con una serie di tabelle e grafici come, la regina dei ranking internazionali, la bostoniana Harvard, potesse contare per risorse pari a circa tre miliardi di dollari, che corrispondono alla metà del finanziamento pubblico italiano ai 68 atenei pubblici del Belpaese e, poca cosa, agli atenei privati.
Morale: «É bene ricordare a Matteo Renzi che quello in cui viviamo non è il mondo della stantia retorica post-gelminiana, delle università «sotto casa»», scrive la redazione, «’spezzettatine’, dei «baroni» che non fanno il loro mestiere. La realtà è molto più complessa. E amara». Ora, se è vero, come ha scritto anche ItaliaOggi, che la crisi ha fatto ammainare qualche campanile accademico, il fenomeno è tutt’altro che scomparso: l’università tiene a Mondovì (Cn) come ad Ariano Irpino (Av), a Priolo (Sr) come a Thiene (Vi).

Per Nadia Urbinati, la politologa con studi americani (Columbia University) che piace tanto a Rep., un’altra che ha bacchettato Renzi, definendolo «aspirante primo ministro», la polemica degli atenei sotto casa è pure mal posta: «Certo, ci sono i casi delle sedi distaccate generate per creare posti di lavoro (i governi della prima Repubblica hanno abusato delle risorse pubbliche per create posti di lavoro assistiti, alle poste come all’università)», ha scritto per il quotidiano di Ezio Mauro, «ma le ‘université’ che come un reticolo coprono il territorio nazionale (e formano bravi studenti apprezzati in tutti i paesi dove vanno, numerosi, a cercare lavoro) non sono uno spezzatino che fa velo all’eccellenza; sono al contrario un laboratorio di energie da dove, inoltre, prendono linfa i centri d’eccellenza».

La professoressa peraltro non ama troppo Renzi, in un’intervista a L’Espresso, nel mezzo delle primarie 2012, lo definì «tattico» e «plebiscitario», sostenendo anche che Pier Luigi Bersani poteva essere «l’Obama italiano», però la sua bocciatura è di quelle che pesano negli ambienti accademici, storicamente serbatoio di voti piddini.

Leggi l’articolo completo su Italia Oggi



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