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Shale oil, le incognite della rivoluzione russa

Ormai è un dato di fatto. Shale gas e shale oil rapressentano una vera e propria rivoluzione, economica e geopolitica. In qualche decennio, gli Stati Uniti potrebbero riconquistare l’indipendenza energetica. Uno tsunami per la politica estera e gli interessi di Washington che produrrà  effetti a catena in tutto il Medio Oriente e per tutti i Paesi produttori di idrocarburi. Anche la Cina sembra voler scommettere su tecnologie avanzate che permettano più sofisticate tecniche di estrazione.

Fino ad oggi la Russia, che vanta le prime riserve di gas e la quarte di petrolio “tradizionale” al mondo, era rimasta a guardare. Ma il 27 settembre scorso, Mosca ha fatto partire la sua rivoluzione energetica. Sono, infatti, iniziate le estrazione di petrolio di scisto del vasto giacimento di Bazhenov, nel cuore della Siberia, un bacino a oltre tremila chilometri da Mosca con riserve che potrebbe superare di molto i piu’ grandi conosciuti al mondo messi insieme, da Bakken del Nord Dakota, alla Vaca Muerta in Argentina, al bacino di Sichuan in Cina. Da questo immenso giacimento, si spera di poter ripartire, così da invertire la tendenza della diminuzione della produzione. Il ministero dell’energia ha di recente anticipato il calo a 7,7 milioni di barili al giorno entro il 2020, dai 10,1 del 20109.

La Russia ha immense riserve anche di shale  e oil gas ma il problema resta quello dei costi per gli investimenti nella tecnologia necessaria. Know how e macchinari che al momento, i russi non hanno. Per l’estrazione del petrolio di scisto, è stato avviato un trasferimento di tecnologia su vasta scala a opera delle imprese americane coinvolte nello sfruttamento di Bakken e del texano Eagle Ford: Baker Hugues, Halliburton e Schlumberger. ”Entro 20 anni Bazhenov potrebbe diventare la fonte principale di petrolio in Russia, anche superiore all’Artico. Ci consente di essere molto piu’ ottimisti sulla produzione dei prossimi cinquant’anni”, ha spiegato al Financial Times Leonid Fedun, vice presidente della Lukoil, impegnata nello sfruttamento della regione insieme a Rosneft, che ha formato una joint venture insieme a ExxonMobil per valutare il potenziale dei 23 campi su cui la compagnia russa ha acquisito diritti di sfruttamento per un’estensione di 10mila metri quadri, Gazprom Neft e Surgutnefgaz. Secondo le stime della stessa Lukoil, ogni pozzo costa dieci milioni di dollari, cinque volte di più di un pozzo convenzionale. Il punto non è tanto riuscire ad estrarre shale oil, è capire quando diventerà conveniente. I russi, però, sanno di non avere alternative se vogliono continuare a essere protagonisti nella partita mondiale degli idrocarburi. Devono agganciare la rivoluzione dello shale.

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