Da qualche settimana assistiamo, nei diversi servizi giornalistici che provengono dal Medio Oriente ed in particolare dalla Siria, a significativi cambiamenti nella descrizione degli scenari.
Da una visione che individuava buoni (i ribelli) e cattivi (i lealisti) oggi cominciamo a capire che questa semplificazione non è più possibile.
Chi ha avuto l’opportunità, ad esempio, di vedere gli ottimi servizi su RaiNews 24 di Gian Micalessin da Maaloula, la cittadina cristiana dove si parla ancora l’Aramaico, la lingua di Gesù, non può non porsi domande sul ruolo dei contendenti: i soldati lealisti che difendono la comunità cristiana dagli attacchi dei ribelli (militanti di al-Qaeda). Oppure i commenti delusi ed incattiviti della comunità cristiana siriana verso i Paesi occidentali, o i dubbi su chi abbia veramente usato i gas e che permangono anche dopo la relazione del Segretario dell’ONU.
In altre parole finalmente comincia a farsi strada la consapevolezza che la situazione in Siria, come in genere in Medio Oriente e nel Nord Africa è molto complessa, si confrontano religioni, etnie, rancori tribali, spesso asserviti e strumentalizzati da interessi economici, egemonici, politici molto più complessi di quello che possiamo immaginare.
Sarà utile per cominciare rileggere la storia recente di questi territori dove troppi errori sono stati commessi e non riparati dalla comunità internazionale.
In questa situazione vuoi per il profilo non eccelso delle leadership politiche occidentali, vuoi per le ripercussioni di una crisi che ha concentrato attenzioni e risorse all’interno di questi stessi Paesi, vuoi per le profonde modifiche di scenario, l’emergere di nuovi soggetti, i nodi energetici, vuoi per le ripercussioni di troppo lunghi conflitti e per la sensazione che alla fine la lotta al terrorismo fosse finita (per lo meno quello che ci riguardava da vicino), abbiamo assistito ad un prolungato disinteresse verso la politica estera in genere ed in particolare verso ciò che maturava in territori confinanti con il Sud Europa.
Lo stesso Obama sembrava aver abbandonato l’interesse verso l’Europa, ma anche verso quell’Africa che era stata spesso al centro dei suoi discorsi elettorali. Ma se l’America si distraeva verso l’Est e la Cina l’Europa si è dimostrata ancora una volta incapace di svolgere un minimo ruolo politico con una gestione imbarazzante dei suoi rapporti internazionali. La debolezza delle persone preposte ma soprattutto il riemergere di singoli egoismi nazionali, comprese neo velleità colonialistiche, ha impedito di trovare un filo conduttore che desse omogeneità alle posizioni europee stesse.
Quindi debolezze strutturali e incapacità di analisi ci hanno fatto travolgere emotivamente e mediaticamente in una rincorsa alle “primavere” con l’illusione che queste rappresentassero la vittoria della nostra visione della democrazia e dei suoi valori.
Oggi facciamo i conti con uno scenario che facciamo fatica a leggere e comprendere e, come se non bastasse, ci troviamo di fronte un’America indecisa che, in ritardo, cerca di recuperare posizioni con esiti al momento travagliati, anche per alcuni indubbi errori tattici, che hanno portato il suo presidente in un apparente vicolo cieco e che hanno ridato alla Russia di Putin una centralità politica di cui si era persa la memoria.
È quindi giusto un momento di riflessione che deve essere però approfondita, che possibilmente ritrovi un’unità di intenti da parte di quei Paesi che si vogliono riconoscere in comuni basi culturali, storiche, economiche. Poi sarà necessario agire politicamente e, se serve con autorità. Non deve infatti passare l’idea che il mondo occidentale è incapace di intervenire per far affermare quel ruolo che gli compete e quei valori che ci sono propri né che sia passata una visione pacifista fine a sé stessa che ci porterebbe ad un inevitabile declino non solo politico ed economico negli scenari mondiali.
In questo ben scriveva alcuni giorni fa Carlo Pelanda sul Foglio, talvolta gli interventi militari sono necessari ed auspicabili, per garantire la sopravvivenza delle popolazioni, per garantire l’affermazione dei valori del diritto e della dignità umana, per equilibrare le tensioni egemoniche, ma per far tutto ciò è necessaria una visione chiara della situazione che generi una politica estera condivisa, dove sappiamo in quale direzione muoverci, chi appoggiare ed aiutare, quali soluzioni proporre.
Tutto questo manca. Resta solo la necessità di rientrare in gioco ma, se fosse una partita di calcio, non sappiamo bene dov’è la porta. E il bisogno di creare consenso in tempi brevi, fattore determinante nelle società democratiche contemporanee ma che per i meccanismi attivati e la relativa superficialità, rischia talvolta di essere un autogol.
Umberto Malusà
ISC, Integrated Strategy Consulting