Pubblichiamo l’intervista di Costanza Rizzacasa d’Orsogna uscita sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi, grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori
Domanda. Che fa, Giampaolo Pansa? Se le va a cercare?
Risposta. Ma no, è che sono fatto così. Non mi accontento mai di ciò che mi viene raccontato. Voglio sempre scoprire come stanno davvero le cose. Da bambino ero un tale scocciatore. E da giovanotto, quando facevo la corte a una ragazza con successo, poi la interrogavo.
D. Poveretta.
R. Quando mi assunsero alla Stampa, mio padre chiese a mia madre: «Ma il Giampa riuscirà a mantenersi?» E lei: «Ma certo. Finalmente ha trovato qualcuno che lo paga per rompere le scatole». Invecchiando, la tendenza peggiora. Tanto più che, di fronte alle banalità e alle menzogne comuni a una certa mentalità di sinistra, non si può star zitti. La sinistra ha fatto dei veri sacrilegi a danno della storia.
Citiamone un paio di questi sacrilegi. «Togliatti? Veniva chiamato il Migliore, ma per molti era il peggiore, perché s’inchinava ai baffi di Stalin. Il Sessantotto? È stato un bluff che ha distrutto l’università. E poi ovviamente il sacrilegio più grande: quello di spacciare l’Italia per un Paese di fervente antifascismo».
È la fotografia, a tratti feroce, sempre controcorrente, di sessant’anni di vita italiana fatta da Giampaolo Pansa in Sangue, sesso, soldi – Una controstoria d’Italia dal 1946 a oggi, in uscita mercoledì prossimo nelle librerie per Rizzoli che racconta le nefandezze della Repubblica denunciandone le ricostruzioni di comodo.
L’ennesimo libro revisionista, insomma, si dirà. Di più, forse addirittura, orrore, un libro di destra. Pansa, uno che, se non proprio da sessant’anni, almeno da trenta non ha più nulla da dimostrare, fa spallucce. Anzi, distaccatosi da un pezzo «da certe compagnie», quell’etichetta dice di considerarla una medaglia.
D. Vero, anche quand’era vicedirettore di Repubblica, alla fine degli anni Settanta, lei non risparmiava critiche al Pci. Ma dica la verità, quanto le piace oggi dare addosso ai suoi ex amici?
R. Quando ho scritto Il sangue dei vinti, nel 2003, non mi ero reso conto di fare del revisionismo scandaloso. Quando però mi hanno aggredito, e con violenza, ho capito di aver infranto la cortina di bugie eretta dai sepolcri imbiancati. Politici e intellettuali che, per ottusità culturale e opportunismo ideologico, non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Perché, diciamolo, in Italia siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch’io, nei primi due anni di scuola elementare, dal 1941 al 1943, quando portavo la divisa da Figlio della Lupa (imposta dal regime a tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, ndr). Conservo una foto con quella divisa, mentre faccio il saluto romano: è datata 10 giugno 1943, terzo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia. L’Italia era un Paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere, e io ne sono testimone.
D. Racconti.
R. Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali. Nella mia città, Casale Monferrato, viveva una comunità ebraica composta da gente che frequentavamo tutti. Eppure, nel 1938, nessuno protestò contro quelle leggi. Nessuno s’indignò, anzi, alcuni se ne congratularono con Mussolini. Proprio come nel 1944, quando iniziarono i rastrellamenti degli ebrei, destinati ai campi di sterminio. Nessuno disse nulla: la fine di tanti nostri concittadini era stata accettata come una cosa del tutto naturale, come un temporale. La verità è che l’Italia si è scoperta antifascista solo dopo il 25 aprile 1945.
D. Il giorno dell’insurrezione a Milano. Ma non teme che, così dicendo, la accuseranno di aver scritto un libro di destra?
R. Guardi, se per destra intende l’opposto di una sinistra culturale bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana falsata dal proprio partito, e continua a spacciare quella lettura ancora oggi con la spocchia di chi ha il complesso dei migliori, allora quell’etichetta è una medaglia.
D. Allora diciamole, le cose come stanno.
R. Diciamole. Diciamo che Togliatti avrebbe dovuto avere più coraggio. Come avrebbe dovuto averne Enrico Berlinguer. Nel 1976, in una mia intervista, disse che si sentiva più sicuro con la Nato che col Patto di Varsavia. Ma Berlinguer avrebbe dovuto andare più veloce: il suo Pci era un plantigrado che avanzava come una lumaca. Io me ne lamentavo, Giancarlo Pajetta mi disse: «Ma che vuoi, che corriamo come podisti alle Olimpiadi? Il nostro ritmo è quello dell’ultimo dei nostri militanti. Va adagio lui, andiamo adagio anche noi». I comunisti non hanno mai avuto il coraggio di fare una revisione profonda del loro rapporto con l’Unione Sovietica: c’è voluta la caduta del Muro di Berlino.
D. Altre verità da portare alla luce?
R. La borghesia di sinistra era tutt’altro che illuminata. Disprezzava chi non apparteneva al proprio clan e detestava i poliziotti. Sa che urlavano, «Basco nero, il tuo posto è al cimitero»? Proprio così. La cosiddetta Meglio Gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. La violenza verbale era ed è ancora la caratteristica dei cosiddetti giornali progressisti, per niente diversi da quelli di centrodestra: anzi, spesso peggiori. Non ho finito. Diciamolo che Gianni Agnelli copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. Diciamolo che la decadenza dell’Italia non è dovuta solo a Berlusconi, ma a tutto il sistema politico, quindi anche a una sinistra inetta.
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