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Vivere con un debito di guerra in tempo di guerra

Dopo l’Ocse, anche il Fondo monetario internazionale si è accorto che il livello dei debiti sovrani nelle economie avanzate ha raggiunto un livello mai visto in tempo di pace.

Tale impennata del debito pubblico è uno dei tanti regali che ci ha fatto questa crisi. Prima il debito medio sul Pil era intorno al 45%. A fine 2012 era già schizzato intorno al 74% “un livello che non si vedeva dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale”. Adesso tale livello ha superato il 90% in alcune economie del G7 e in molte economie dell’eurozona. In alcune è previsto che il debito/pil superi di circa il 40% il livello pre-crisi.

Si capisce perciò perché mai il Fondo abbia deciso di dedicare al tema un quaderno d’analisi, icasticamente intitolato “Dealing with High Debt in an Era of Low Growth”, che vuole dire una cosa molto semplice: dobbiamo abituarci a convivere con un debito di guerra in un tempo di guerra: la guerra della bassa crescita, che implica disoccupazione e recessione.

Le cause e le dimensioni del problema ormai sono note. La crisi, fra le altre cose, ha provocato il collasso delle entrate fiscali che, associato all’aumento della spesa pubblica, necessario per garantire la stabilità delle banche, e agli stabilizzatori automatici, ha fatto esplodere la montagna del debito degli stati. La crisi degli spread, all’interno dell’eurozona, ha dato un altro contributo. A conti fatti, scrive il Fondo, i saldi fiscali nelle economie avanzate sono peggiorati all’incirca del 4% del Pil, prima di iniziare a recuperare.

Questa montagna di debito, “può portare a più alti tassi d’interesse e a una crescita più bassa”, oltre a rendere “più vulnerabili le finanze pubbliche a futuri shock”, senza contare che può far crollare la fiducia conducendo a ulteriori disequilibri.

Ricordiamoci, prima di andare avanti, che il debito pubblico, a cui lo studio è dedicato, è solo una parte del problema. Altrettanto pericoloso è il debito del settore privato e, all’interno del debito lordo (privato+pubblico), la quota di debito estero.

Ma torniamo al nostro paper.

La prima questione che salta all’occhio è che a questo debito crescente siano associatoe alcune questioni socioeconomiche che caratterizzano fortemente le economie avanzate. Prima fra tutte la crescita della spesa sociale correlata all’invecchiamento delle popolazioni, quindi previdenza e sanità in testa, che è prevista aumenti di più di 3 punti di Pil entro i prossimo 30 anni.

Quidi debito alto e previsto in crescita.

Un fatto che non ha precedenti nella storia.

Come se non bastasse, questo debito crescente è associato a un outlook scoraggiante sul versante della crescita.

Gli studi concordano sulla circostanza che il miglior modo per uscire dai debiti sia aumentare la crescita, d’altro canto si parla sempre di rapporto debito/pil.

Ma anche qui le previsioni non sono incoraggianti. Il Fondo stima che la crescita media delle economie considerate, fra il 2013-18, sarà intorno al 2%, ben al di sotto del 3,3% del periodo 1980-2007. Quando, aggiungo io, la montagna del credito/debito ha iniziato a impennarsi. Non certo a caso.

La combinazione di crescita calante e debiti crescenti (e quindi pressione sui tassi) “è particolarmente sfidante per alcuni paesi”.

Vi fischiano le orecchie? Allora sappiate che nelle previsioni del Fondo, fra il 2013-18 in Italia dovremmo avere una media reale dei tassi del 3% a fronte di una crescita media dello 0,1%. Quindi il nostro indebitamento pubblico reale è destinato a crescere a questo tasso. Persino superiore a quello della Spagna (2,7), del Portogallo (2,5) e dell’Irlanda (0,4%).

Altro che Pigs.

Al contrario, nei paesi che stanno di fatto inflazionando il debito, il saldo fra crescita prevista e tassi reali è negativo: per lo 0,7% per il Giappone e addirittura del 2% per gli Usa, per la gioia dei compratori del debito americano, cinesi in testa.

Per capire come uscirne, è interessante vedere cosa ci dice la storia recente.

Fin dal 1980 (ossia da quando il debito lordo è cominciato a crescere senza sosta) ci sono stati 26 episodi di riduzione di debito pubblico che hanno interessato 20 paesi.

Anche stavolta primeggiamo.

Fra il 1994 e il 2003 l’Italia riuscì ad abbattere il proprio debito pubblico dal 122 al 104%., ma salta all’occhio anche il caso del Belgio, che fra il 1997 e il 2003 passò dal 134 all’84% o, fuori dall’eurozona, quello di Israele, che fra il 1989 e il 2000 è passato dal 147 all’84%. Notevole anche il risultato dell’Irlanda, che nei vent’anni fra il 1987 e il 2007 (quando poi è riesploso) ha portato il debito dal 109 al 25%.

Cosa hanno in comune questi casi? Che c’è voluto parecchio tempo e un contesto internazionale di crescita robusta, per diminuire il debito.

Quindi, se la storia insegna qualcosa, è che comunque servirà parecchio tempo prima di uscire da questa situazione. La media, calcolata dal Fondo, è di otto anni.

Se la crescita sarà lenta questa media è destinata ad allungarsi.

Rischiamo di invecchiare con questo debito sulle spalle. Che poi significa sotto l’ipoteca dei nostri creditori e col costante fardello della minaccia di un default.

Ma come si fa a sfuggire da questa prigione?

Anche qui la storia è maestra di contabilità.

Nei casi monitorati dal Fondo il grande protagonista di questo risanamento è l’avanzo primario, che gareggia con la crescita nel ruolo di fattore determinante per il calo del debito. Ma anche l’inflazione fa la sua parte. Nel caso di Israele, ad esempio, i tassi medi reali furono negativi per il 4% nel periodo.

Tuttavia il cavallo di battaglia è l’avanzo primario, che appare sia nei casi in cui ci sia stata forte crescita, sia in quelli contrari. Anzi, paradossalmente, scrive il Fondo “sembra che i paesi generino un più alto avanzo primario quando l’economia è debole, forse per compensare la bassa crescita”.

Avanzo primario, perciò, rima con consolidamento fiscale, anche se non sembra.

E questo è il primo indizio di quello che ci aspetta.

Un secondo indizio lo traiamo dall’analisi del Fondo sul caso Italiano.

La nostra riduzione di debito, nota il Fondo, si è consumata nonostante una crescita modesta dello 0,7% medio nei tre anni precedenti la riduzione e dell’1,5% durante la riduzione. “Ciò suggerisce che la riduzione del debito può verificarsi anche in un ambiente di bassa crescita”.

Ma come abbiamo fatto?

“Alcuni fattori – scrive il Fondo – hanno contribuito, in particolare la domanda estera e il calo dei tassi d’interesse”.

L’episodio italiano fu caratterizzato da una graduale svalutazione del tasso di cambio e da un crescente export tre anni prima che il debito iniziasse a scendere. Il tasso di cambio poi si stabilizzò, una volta che il debito scese, ma l’export continuò a tirare per altri due anni.

Quanto ai tassi, la riduzione del tasso a breve cominciò quattro anni prima della riduzione del debito e continuò, pur moderandosi, per tutto il periodo. “Le analisi del Fondo – sottolinea – hanno mostrato quanto sia determinante una politica accomodante per la riduzione dei debiti”.

C’è arrivata anche la Bce, infatti.

Ma è un altro il dato interessante: la riduzione del debito si è innescata con la partenza della crescita, seguita all’aumento della domanda estera e al calo dei tassi, che poi ha fatto partire anche la domanda interna.

Questo per quelli che dicono che la svalutazione fa male.

Nel caso italiano, poi, l’inflazione non ebbe alcun ruolo, “anzi diminuì in quel periodo”.

Rimane la domanda: che fare oggi?

Col consolidamento fiscale bisogna andarci piano, visti la quota raggiunta dalla montagna del debito, poiché si rischia di far più danno che bene. E tuttavia, dice il Fondo, bisogna metterlo in campo. Perché sennò c’è il rischio di generare sfiducia, costi crescenti per il debito e ulteriore crisi. Un contesto istituzionale robusto – nota – può aiutare. Perciò la spesa pubblica dovrà diminuire, in un modo o nell’altro.

Quindi dobbiamo aspettarci un robusto dimagrimento della spesa pubblica o un aumento delle tasse.

Sul lato monetario serve una politica accomodante, anzi di stimolo monetario, “specie nei paesi dove il gap della produzione rimane notevole”. Nel nostro caso, non potendo fare politica monetaria indipendente, dobbiamo sperare nel buon cuore della Bce.

Poi c’è il capitolo delle privatizzazioni. Ma anche il Fondo si deve essere accorto che ormai fa un po’ ridere quest’argomento. Perché, scrive “possono aiutare”, ma poi in realtà “bisogna considerarle con realismo e attenzione”, anche perché in un contesto di crescita debole possono generare incassi poco significativi.

Il Fondo prende in esame anche il caso inflazione. “Un’alta inflazione può aiutare a ridurre il debito pubblico erodendo il valore reale del debito”. Per non parlare di salari e pensioni. E tuttavia un’alta inflazione porta con sé diversi rischi, primo fra tutti quello di disancorare le prospettive di inflazione e far passare agi investitori la voglia di comprare debito destinato a inflazionarsi chissà quanto.

Dulcis in fundo, le riforme strutturali. Che però prima bisogna riuscire a farle, e poi aspettare che facciano effetto “nel lungo termine”, ossia quando saremo, keynesianamente parlando, tutti morti.

Chiaramente più un paese ha debiti, più dovrà vedersela con tutte queste opzioni. E poiché noi primeggiamo in Europa per debito pubblico, più degli altri dovremo farci i conti.

A questo punto dovrebbe esser chiaro a tutti come si vive con un debito di guerra in tempo di guerra. E d’altronde bastava chiederlo ai nostri nonni.

Si mangia poco e si dimagrisce.

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