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Corno d’Africa, strategie e prospettive dei terroristi di Al Shabaab

Pubblichiamo un’analisi introduttiva a un seminario su politica e sicurezza nel Corno d’Africa che si terrà il prossimo 15 e 16 ottobre, a Roma. L’evento è organizzato dall’Institute for Global Studies diretto da Nicola Pedde. Media Partner dell’evento: Formiche, La Civiltà Cattolica e Meridiano 42.

Il clamore sollevato dall’azione a Nairobi da un commando identificatosi come parte dell’al Shabaab, impone un’analisi approfondita e meno umorale di quella che, soprattutto la stampa, ha veicolato nei giorni successivi all’evento. L’azione condotta al Westgate mall, per quanto drammaticamente pesante in termini di vittime, non indica alcun incremento nella capacità operativa od organizzativa dell’al Shabaab, ma solo un cambio di strategia e, con ogni probabilità, una ridefinizione delle priorità d’azione dell’organizzazione. L’attacco a Nairobi, tecnicamente, è stato relativamente semplice e poco dispendioso per forze e mezzi impiegati, potendo contare in primo luogo sulla sorpresa, ma anche e soprattutto sulla scarsa sorveglianza dell’obiettivo prescelto per l’azione. Il commando che ha gestito l’attacco – alla luce dei dati disponibili ad oggi – non dovrebbe aver superato le 10/15 unità (permangono dubbi circa la possibilità che qualcuno degli attentatori si sia riuscito ad allontanare, unendosi al deflusso degli ostaggi), e sembrerebbe aver utilizzato l’inglese come lingua di coordinamento dell’azione. Lasciando in tal modo sospettare come la gran parte dei suoi componenti fosse riconducibile a somali della diaspora, e a non somali. Ciò che deve destare interesse, all’indomani del tragico evento di Nairobi, è quindi la mutata visione strategica ed operativa dell’al Shabaab, espressione non già di una rinnovata capacità offensiva ma, al contrario, della necessità di intervenire alla radice dei problemi che hanno determinato la profonda crisi di cui è oggi vittima l’organizzazione. L’obiettivo, dunque, è quello di colpire i paesi coinvolti nel processo di stabilità della Somalia, e grazie ai quali è stata possibile la riconquista delle roccaforti dell’al Shabaab, nell’intento di convincere le opinioni pubbliche locali sull’opportunità di ritirare i contingenti presenti in Somalia in seno all’Amisom. Un obiettivo estremamente ambizioso che, tuttavia, costituisce il presupposto della capacità di sopravvivenza dell’al Shabaab, cui sono venute meno con la caduta di Mogadiscio e Kisimayo le capacità di sostentamento economico e, conseguentemente di controllo del territorio attraverso la gestione delle famigerate milizie. Ulteriore difficoltà per le milizie islamiche, è poi quella del loro inconsapevole utilizzo sul piano della propaganda regionale per la sicurezza, alimentata in primo luogo dai suoi nemici, e che ha incrementato esponenzialmente – quanto spesso immotivatamente – l’attenzione della comunità internazionale sulla minaccia del qaedismo nel Corno d’Africa. Gli obiettivi che l’al Shabaab oggi si pone – anche se, più correttamente, sarebbe necessario parlare di un nuovo al Shabaab dopo le sanguinose e radicali diatribe del recente passato nella definizione della linea di comando dell’organizzazione – appaiono decisamente troppo ambiziose per le effettive capacità sino ad oggi dimostrate. Obiettivi difficili da conseguire per diverse ragioni, e in primo luogo perché il posizionamento dell’al Shabaab è ormai internazionale, avendo attirato su di sé l’attenzione di una pluralità di grandi attori globali, decisi ormai a tutto pur di risolvere il problema dell’instabilità della Somalia. Ma difficili da conseguire anche perché è ormai conclamato l’interesse di diversi attori regionali nel poter partecipare alla ricostruzione della Somalia, e soprattutto alla ridefinizione delle sue prerogative economiche. L’Etiopia e il Kenya in primis, ma anche il Burundi e l’Uganda, hanno quindi un manifesto interesse ad enfatizzare la dimensione della minaccia rappresentata dall’al Shabaab, al fine di poter concentrare ogni risorsa, e dedicare qualsiasi sforzo alla sua soluzione. E contestualmente mantenere un presidio in Somalia attraverso il quale orientarne i futuri assetti politici, e soprattutto economici. Medesimi interessi muovono gli Stati Uniti, la Turchia e la Gran Bretagna, che sulla Somalia hanno iniziato ad investire molto, anche se non intendono in alcun modo commettere nuovamente l’errore di un intervento diretto per la pacificazione. In chiave diametralmente opposta gli interessi dell’Eritrea, che invece vede nel sostegno all’islamismo somalo e alle milizie dell’al Shabaab un modo per alimentare una dimensione di instabilità regionale che impegni l’Etiopia e Gibuti lontano dai propri confini. Ultima, ma non per ultima, la Cina, che considera l’intera regione del Corno d’Africa come potenzialmente strategica per i propri interessi, e dove quindi non intende essere estromessa nella definizione delle priorità di sviluppo e sicurezza. Un conglomerato di interessi ed una pluralità di attori, quindi, che rende la posizione dell’al Shabaab estremamente debole, trasformando l’organizzazione – di fatto a sua insaputa – in un prezioso strumento funzionale al perseguimento di obiettivi terzi. Tutte le principali agenzie di intelligence e i centri di analisi politica e militare concordano nel ritenere fortemente diminuita la consistenza dell’al Shabaab e la sua capacità d’azione, sebbene la delocalizzazione ne abbia di fatto mutato le priorità e le potenzialità su nuovi fronti. Se l’obiettivo diventa quindi quello di colpire gli attori della presenza militare in Somalia con azioni terroristiche sul loro territorio, e non più gestire la complessità dei propri traffici in roccaforti complesse come Mogadiscio e Kisimayo, le esigenze logistiche e militari dell’al Shabaab si riducono fortemente, stante la relativa semplicità dei nuovi compiti. Le milizie islamiche sono quindi destinate a sopravvivere, sebbene nell’ambito di una dimensione e di una capacità d’azione del tutto differente e ridotta rispetto al passato. Resteranno una minaccia per la sicurezza della ripresa economica e sociale in Somalia, per le truppe straniere impegnate nella stabilizzazione, e probabilmente anche per la sicurezza dei paesi vicini, dove compiranno attentati ed azioni a cadenza periodica per rivendicare il proprio ruolo nell’attesa di una nuova possibilità di consolidamento sul proprio territorio. Se il processo di consolidamento e stabilità della Somalia proseguirà secondo le attuali direttrici, saranno tuttavia progressivamente erose tutte le possibilità di incremento del proprio ruolo, e sempre minori quelle di sviluppo del movimento su scala regionale.

Nicola Pedde è direttore dell’Institute for Global Studies e della ricerca sul Medio Oriente e Golfo Persico presso il Centro militare di studi strategici del Centro alti studi per la difesa.


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