La notizia, rimbalzata velocemente sui media, dei 46 milioni di telefonate intercettate in Italia in un solo mese sicuramente fa rumore, ma è la prova abbastanza tangibile che non ci si trovi di fronte a uno scandalo.
Impossibile infatti ascoltare un numero così grande di conversazioni. E le prime rassicurazioni in tal senso sono giunte dagli stessi 007 italiani, che hanno invitato a prendere con le molle la bufera scatenata dalle rivelazione sull’attività della National Security Agency (Nsa) americana, ricordando come un conto sia lo spionaggio, altra cosa il monitoraggio.
Quella apparentemente enorme mole di intercettazioni, infatti, non è necessariamente un cumulo di conversazioni controllate, ma soltanto di “metadati” (numeri chiamati, durata delle telefonate, identità di ricevente e chiamante) su cui poteva scattare un approfondimento qualora fossero state usate parole sospette.
Il governo italiano, tuttavia, non ha sottovalutato la portata del problema e ha reagito prontamente ma con la prudenza del caso.
Lo stesso non può dirsi degli alleati europei, in primis Germania e Francia, che hanno protestato in modo forte, reagendo in ordine sparso e segnalando, se ancora ce ne fosse bisogno, come l’Unione europea sia un’entità politica ancora tutta da costruire, che spesso, come in questo caso, fa da buon parafulmine ai singoli interessi nazionali e un po’ meno a quelli collettivi.
Perché certo, gli Stati Uniti non possono andare fieri del clamore che ha avvolto un programma che, in ogni caso, ha tutte le caratteristiche tecniche per essere definito a fini antiterroristici. E l’imbarazzo del presidente Barack Obama è perfettamente comprensibile, dal momento che chi viene scoperto paga per tutti.
Ma allo stesso modo occorre evidenziare come, dietro la maschera dell’indignazione, si celi ormai la consapevolezza che il Datagate ha squarciato il velo di ipocrisia che contraddistingueva i rapporti tra Paesi, anche alleati, anche nei confini di Bruxelles: tutti spiano e sono spiati, senza troppi complimenti.
E, se si andasse a scavare, si scoprirebbe con un pizzico di sorpresa – non sicuramente da parte degli addetti ai lavori – che l’opera di spionaggio americano nei confronti del nostro Paese è molto meno aggressiva di quella portata avanti dai Servizi tedesco, britannico e francese, anche con fini meno nobili che l’estirpazione della minaccia qaedista, come l’appropriazione di segreti politici, commerciali ed economici (fa sempre un po’ impressione ricordare che Parigi ha una vera e propria Scuola di guerra economica).
E se il Datagate rivela quindi solo in apparenza la rilevanza della capacità di spionaggio del governo federale americano, nella realtà, quello che emerge è la forza della risposta del controspionaggio realizzata con la cooperazione, quanto meno passiva, di Russia e Cina.
Le rivelazioni di Snowden – complice anche il suo “splendido isolamento” a Mosca e dintorni – conducono in questi Paesi.
Che hanno tutto l’interesse a destabilizzare, per ovvie ragioni, le relazioni fra Stati Uniti ed i suoi alleati.
Come l’Italia, che per posizione e asset – ad esempio la rete di oltre 130mila chilometri di cavi di fibra ottica che approdano in Sicilia e da cui passa il 100% delle telecomunicazioni non satellitari che escono da una delle aree strategicamente più delicate al mondo, Medio Oriente e mondo arabo – è stato e continuerà ad essere uno dei partner fondamentali degli Usa anche nel Mediterraneo e con l’Africa.
Il punto quindi non è solo di regolamentare la sicurezza delle comunicazioni tutelando meglio la privacy ed i diritti dei cittadini. Ad essere ormai oggetto di discussione è la relazione dell’Europa con il suo alleato per antonomasia. Sono in molti a chiedersi se abbia motivo allargare le sponde dell’Atlantico sulla base della retorica democratica ma a tutto favore di potenze che sono “diversamente” democratiche. Il senso della misura è una virtù di cui necessita di certo Washington ma non di meno le capitali europee.