Dopo la tragedia di Lampedusa, rischiamo in queste ore di assistere alla ripetizione di uno degli schemi classici della politica italiana: parlare d’immigrazione sì, è cosa buona e giusta; ma discuterne non si fa, soprattutto a sinistra. Tra un grido di dolore (quasi sempre sentito) e una dichiarazione di principio (spesso colma di retorica), in molti sostengono di avere la soluzione in tasca. Ma sia essa l’autoflagellazione di un popolo tutto, che avrebbe di che vergognarsi o di che avere la coscienza sporca – dice curiosamente qualcuno -, sia essa l’abolizione tout court della Legge Bossi-Fini, il tratto comune agli indignati dell’ultimora è quello di non voler nemmeno concepire un dibattito pubblico sul tema, magari basato anche su analisi e dati. Penserà qualcuno, con eccesso di buonafede: ma come si può ragionare oggi, sull’onda delle forti emozioni suscitate dalla morte di centinaia di bambini, donne e uomini a pochi metri dalle coste italiane? Questo qualcuno in buona fede sbaglierebbe, e mi permetto di suggerire due esempi che secondo me lo dimostrano.
Focus sulla Bossi-Fini
Prendiamo il caso della Legge Bossi-Fini e ammettiamo per un attimo, come sostiene il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, che sia proprio per colpa del meccanismo stringente dei flussi annuali previsti da questa legge che gli aspiranti immigrati si imbarcano in viaggi pericolosi, qualche volta addirittura mortali. Tra i dirigenti politici della sinistra (dal Pd a Sel) questo tipo di ragionamento è diffuso, così come ai vertici del mondo sindacale e dell’associazionismo cattolico. Eppure un dibattito pubblico sul punto in pochi vogliono che ci sia.
Il caso dei referendum radicali
Lo dimostra la sorte di due referendum promossi dai Radicali per modificare in senso espansivo proprio la Legge Bossi-Fini, abrogando il reato di clandestinità e slegando la possibilità di restare in Italia dalla stipula di un contratto di lavoro. Su tali proposte, negli scorsi tre mesi, uno schieramento che in queste ore appare tanto ampio e trasversale (dagli altari alle scrivanie delle redazioni, passando per le centrali sindacali) è riuscito a raccogliere a malapena 150mila firme tra decine di milioni di italiani, e non le 500mila necessarie a portare il quesito davanti agli elettori. I Radicali sono pochi, è noto, ma in calce ai quesiti sulla giustizia, negli stessi tre mesi, hanno raccolto oltre 500mila firme. Tutto merito di Silvio Berlusconi, dicono tanto i sostenitori quanto i detrattori di Marco Pannella e compagni, ed è vero: la pubblicità mediatica offerta dalla firma del Cavaliere ha coinvolto cittadini di tutti gli schieramenti che altrimenti dei referendum avrebbero saputo poco e nulla.
Ipotesi sulla latitanza di eminenti personalità
Quel che risulta apparentemente inspiegabile è che personalità pur molto “interventiste” nel dibattito pubblico, dal presidente della Camera Laura Boldrini allo stesso ministro Kyenge, per non parlare dei dirigenti del Pd e della Cgil ospitati su base quotidiana in tutti i talk show televisivi, non abbiano fatto come Berlusconi, cioè non si siano esposte per promuovere concretamente quella riforma che adesso giudicano irrinunciabile. A meno di non voler addebitare tutto a un eccesso di cinismo (“ci sono i Radicali di mezzo, meglio soprassedere”), o a un’inspiegabile conversione intellettuale negli ultimi sette giorni (“ieri la Legge Bossi-Fini non era dirimente, oggi invece il suo superamento è il fulcro di tutto”), resta sul campo un’ipotesi: l’esistenza di un malcelato timore a coinvolgere direttamente l’opinione pubblica, chiedendole di votare a favore di norme più lassiste sull’immigrazione. Farlo sulle agenzie stampa è un conto, nell’urna è un altro: cosa sarebbe successo in caso di bocciatura della riforma per via referendaria? Per quanti anni non si sarebbe più potuta toccare la Legge Bossi-Fini, quantomeno per rispettare la volontà popolare? Non è detto che sarebbe finita così, sia inteso, ma il rischio c’era e qualcuno non ha voluto correrlo. Salvo ora invocare una modifica parlamentare sulla scorta dei fatti di Lampedusa.
Il dossier respingimenti
C’è un altro caso che testimonia la riluttanza, diffusa in ampia parte dello spettro politico, di confrontarsi apertamente – quando si tratta di politiche dell’immigrazione – con l’opinione pubblica e con qualche dato di realtà, ed è quello dei cosiddetti “respingimenti”. Questa pratica, introdotta nel 2009, consisteva nell’intercettare in mare le imbarcazioni che tentavano di entrare illegalmente nelle acque italiane con il loro carico di donne e uomini, nel girare la prua delle stesse navi – o più spesso nel far imbarcare i passeggeri su navi della marina italiana o degli stati nordafricani -, e nel riportare alla base di partenza gli stessi migranti. “Tra il primo maggio e il 30 agosto del 2008 – dichiarò una volta l’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni – sono arrivati in Italia 14mila clandestini. Nello stesso periodo del 2009 ne sono arrivati 1300. Il sistema funziona e così si evitano le tragedie”. Sul funzionamento di questa politica si può discutere, anche se in Italia perfino i numeri sugli sbarchi non sono sempre pubblici e perfettamente omogenei per poterci ragionare su.
C’è cosa succede in Australia
In Australia, uno dei Paesi Ocse con il maggior numero di immigrati legali in tutto il mondo (in proporzione alla popolazione, un terzo di quella italiana), questa politica sembra aver effettivamente funzionato come deterrente per le pericolose traversate: da quando, nel 2001, il governo conservatore si rifiutò di far attraccare una nave norvegese che aveva soccorso 438 immigrati senza visto in mezzo al mare, il numero degli sbarchi è diminuito drasticamente, dagli oltre 4.100 arrivi nel 2000-01 a 3.039 nel 2001-02 fino a 0 (zero) l’anno successivo; con il ritorno dei Laburisti al governo nel 2007, e la sospensione dei respingimenti, gli sbarchi hanno ripreso a crescere fino a oltre 25mila nel 2012-13, salvo calare di un po’ negli ultimi mesi, durante la campagna elettorale, quando entrambi i partiti hanno annunciato una linea più rigorosa. D’altronde tutti gli studiosi seri del fenomeno migratorio riconoscono che ai fattori “push” (per intenderci, ciò che spinge un cittadino a lasciare il suo Paese) si affiancano i fattori “pull” (ciò che attrae verso uno specifico Paese, incluse le sue politiche sui flussi in entrata, più o meno restrittive).
Benvenuti in Italia
Si potrà dire, legittimamente, che i respingimenti non piacciono, o che violano sempre e comunque certi aspetti del diritto internazionale. Quel che si è fatto in Italia è stato però un po’ diverso: durante la parentesi del governo tecnico di Mario Monti, si è deciso di sospendere quella politica, per scelta dell’esecutivo e senza una discussione o un voto parlamentare ad hoc. Ancora una volta, etsi opinione pubblica non daretur. Così d’un tratto, in mancanza delle possibilità pratiche di gestire un’accoglienza illimitata di stranieri sul suolo italiano, si è rimasti in un limbo che le crisi mediorientali e africane rendono sempre più insostenibile. Non solo per noi cittadini o residenti italiani.
Amara conclusione
Di tutto questo si potrebbe e dovrebbe discutere, o delle conseguenze sociali ed economiche del fenomeno migratorio, per Paesi ospiti e per Paesi d’origine, cercando di affrontare razionalmente certe paure ataviche così come certi tic elitisti. Noi invece per ora siamo fermi a ragionamenti buoni al massimo per farci un titolo d’agenzia o di giornale, a quelli che “è colpa di Kyenge” contro quelli che “è colpa di Bossi e Fini”.
Continueremo così a sobillare i tifosi delle due curve, senza offrire soluzioni al Paese o a chi decidesse un domani di volerlo raggiungere nella legalità.