Dobbiamo essere grati a Mario Draghi, non tanto per le politiche monetarie perseguite dalla Bce sotto la sua presidenza (sulle quali peraltro ognuno avrà le sue opinioni), ma per la straordinaria chiarezza con la quale illustra il momento storico che sta vivendo l’Unione europea.
Nel deserto intellettuale nel quale si sta consumando l’epopea del nostro continente, le allocuzioni di Draghi, ma si potrebbe dire lo stesso di molti suoi colleghi banchieri centrali, hanno il pregio di innalzare il livello di un dibattito che, senza questi contributi, sarebbe davvero miserevole, con i politici che cercano di spuntare qualche euro per soddisfare la loro fame di consenso, e le opinioni pubbliche, stremate dalla crisi, per le quali l’Europa ormai è un fatto prevalentemente monetario.
E invece sotto la traccia delle polemiche ormai diffusissime pro o contro la moneta unica, cova una filosofia politica che è anche un progetto portato pervicacemente avanti da oltre sessant’anni, che sembra esser finito in ombra, ma che invece, al di là delle apparenza, è vitale ed estremamente funzionale. Un progetto innanzitutto politico, che rappresente, piaccia o no, la vera novità del nostro tempo.
Perciò dobbiamo essere grati a Mario Draghi che in una recente lettura pubblica alla Harvard Kennedy School di Cambridge ha spiegato con rara precisione cosa bolle in pentola, ossia la “Ricerca di un’Unione più perfetta” nella quale sono impegnati i cervelloni europei.
“L’Europa è impegnata in un profondo processo di riforma – dice Draghi -. Molte di queste riforme sono condotte a livello degli stati membri, che lavorano per rendere le loro finanze pubbliche più sostenibili, le loro economie più competitive e più solidi i bilanci delle loro banche. Ma ci sono anche riforme che si stanno conducendo a livello europeo. Sono state create nuove regole e istituzioni e questo cambierà le relazioni fra l’Unione e gli stati membri”.
Il preambolo dei Trattati, dice Draghi, enuncia che si vuole arrivare a un’Unione più stretta fra gli stati europei.
Il famoso “più Europa”.
“Per molte persone – osserva – questo crea ansia. Sembra promettere un inesorabile movimento verso un futuro super-stato. Molti europei, con storie e culture differenti, sentono di non essere pronti”.
Ma dietro quest’ansia, spiega Draghi, si annida un fraintendimento.
“Quello che l’Europa ha di fronte – sottolinea – non è adeguatamente rappresentato dall’espressione ‘Unione più stretta’. Dal mio punto di vista è meglio rappresentato dal termine preso a prestito dalla Costituzione americana: l’affermazione di una ‘Unione più perfetta’”.
Che significa?
“Significa che dobbiamo perfezionare qualcosa che è già cominciato, precisamente l’Unione economica e monetaria lanciata nel 1999. I policy-makers stanno adesso facendo i conti con la decisione di creare un genuino mercato unico supportato da una moneta unica”.
Conseguenze che, evidentemente, i politici europei non hanno valutato pienamente.
Perché se lo avessero fatto, saprebbero due cose che Draghi, molto efficacemente, ricorda:
1) “Un mercato unico ha necessariamente implicazioni politiche, nelle quali una parziale condivisione di sovranità degli stati nazionali può essere il miglior mezzo per preservare la loro sovranità”. Vi sembrerà una contraddizione, ma ha una sua logica.
2) Da tale considerazione nasce l’esigenza di garantire un”Unione bancaria e il rafforzamento fiscale” ”per rafforzare il mercato unico e la moneta unica”.
Cominciamo dal primo punto. “Per capire l’Ue e l’eurozona – dice – bisogna capire la differenza fra un’area di libero scambio e un vero mercato unico. La prima è un accordo parziale e reversibile. Un mercato unico, al contrario, è un’unione permanente e universale. In questo caso governi e parlamenti nazionali hanno rinunciato dal principio firmando il Trattato al potere di reintrodurre controlli alle frontiere. Ciò comporta che, a differenza di quanto accade in un’area di libero scambio, i governi nazionali non possono proteggersi da soli contro comportamenti competitivi scorretti che arrivino dall’esterno”.
Devono quindi rivolgersi a qualcosa che sia più ampio di loro, ossia un livello “sovranazionale“.
“Questo livello deve essere insieme giudiziario e col potere di rinforzare la competizione al livello del singolo mercato”. E questo, ricorda Draghi, è il lavoro che fa la Corte di giusitizia europea. Sin dai tempi della Ceca, ricordo io. Fu in quegli anni che nacque l’intuizione che l’unione politica dell’Europa sarebbe necessariamente passata dall’Unione economica.
“Se c’è un livello giudiziario, deve esserci anche un livello che si occupi di scrivere le leggi – aggiunge – e questo è quello che fanno il Parlamento Europeo e il Consiglio europeo”.
Infine, ” se c’è un potere giudiziario e un potere legislativo, serve anche un potere esecutivo che implementi le loro decisioni”, il riferimento, ovvio, è alla Commissione europea.
“Questo è quello che voglio dire quando osservo che un mercato unico ha implicazioni politiche”, dice Draghi. Vale a dire il fatto che il Mercato unico genera, per sua stessa natura, gli organismi sovranazionali che sono chiamati a regolarlo.
Un’osservazione assai cara ai giuristi europeri degli anni ’50.
Il problema, osserva Draghi, è “quale grado di poteri debba essere trasferito a livello sovranazionale, ossia quanta sovranità debba essere ceduta”. Ma per rispondere, serve un piccolo assaggio di filosofia politica.
Draghi ricorda che un modo per considerare la sovranità è quello di natura “normativa”, ossia quella storicamente legata ai primi stati assolutistici, interpretato dalla filosofia di Jean Bodin nel XVI secolo. “In questo senso, la sovranità è definita in relazione ai diritti: il diritto di dichiarare guerra e di concludere la pace, il diritto di imporre tasse, di battere moneta e di giudicare in ultima istanza”.
Ma c’è un altro modo di definire la sovranità che Draghi definisce “sovranità positiva”. In questo senso, dice Draghi ricordando la filosofia di John Locke, “la sovranità è in relazione alla capacità di erogare i servizi essenziali che il popolo si aspetta dal governo”. “Una sovranità incapace di rispettare tale mandato sarebbe solo una sovranità di nome, non di fatto”.
Manco a dirlo, è a questo secondo tipo di sovranità che bisogna guardare per rispondere alla domanda su quanta sovranità debbano cedere gil stati nazionali per favorire la buona salute del mercato unico “e quindi determinare quali poteri debbano essere affidati al livello nazionale o sovranazionale”.
Con questa logica “si esce da un gioco a somma zero, in cui a una cessione di sovranità di qualcuno corrisponde un guadagno di sovranità di qualcun altro e si entra in un gioco a somma positivo che privilegia i bisogni dei cittadini”.
Vi sembrerà molto astratto, ma non lo è. “Questo modo di pensare è già incorporato nei Trattati europei, nel principio di sussidiarietà. Questo prevede che i poteri non possano essere trasferiti al livello dell’Unione fino a quando un’azione non si dimostri più efficace di quanto lo sia al livello nazionale”.
In altre parole, “si mette l’enfasi sull’efficacia dell’azione politica”, non sul soggetto che la esercita.
Proprio questa logica ha condotto alla scelta della moneta unica, allo scopo di “massimizzare i potenziali guadagni per gli stati membri che formano un mercato unico”.
Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono due:
1) la desiderabilità di un singolo mezzo di pagamento e di un’unica unità di conto. “Una moneta unica non è solo per il commercio, ma risulta utile per eliminare i costi di conversione e incrementare la trasparenza di prezzo”;
2) Il secondo argomento è quello che mette l’indice sulla necessità di avere una competizione equa nel mercato comune. “In un sistema di cambi flessibili i singoli governi possono esser tentati di manipolare la propria valuta per avere vantaggi competitivi. Un’economia che incrementa la produttività e la competitività può essere privata dei benifici che ne conseguono a causa della svalutazione di un paese concorrente”. E questo, sembra di capire, non è giusto. Tanto è vero che il Trattato che fonda l’Ue richiede “che ogni stato consideri il tasso di cambio come una materia di interesse comune”.
La conseguenza è che in un mercato comune “il cambio fisso è un importante componente di una competizione corretta. E in questo senso la moneta unica è diventato uno strumento per massimizzare i benefici del singolo mercato”. Senza contare, osserva, che la cessione della sovranità monetaria – nel senso sussidiario che abbiamo visto – “garantisce paradossalmente una maggiore influenza nazionale”, visto che anche gli stati più piccoli hanno voce in capitolo, nell’eurosistema, insieme ai più grandi. Il famoso gioco a somma positiva.
Se avete tutto chiaro fino a qua, capirete anche perché Draghi si spenda così tanto per l’Unione Bancaria, il secondo punto del suo ragionamento.
Alla straordinaria cessione di sovranità “normativa” che ciò comporta per gli stati nazionali a vantaggio del livello sovranazionale corrisponde un’altrettanto aumento di sovranità “positiva” in quanto, secondo Draghi, con l’Unione bancaria gli stati nazionali saranno molto più in grado di assicurare banche stabili e quindi capaci di proteggere assai più che adesso il risparmio e garantire il credito all’economia. Servizi che, lo ha dimostrato la crisi di questi anni, gli stati nazionali non sembrano più in grado di fornire con efficacia.
E questo ci conduce al salto finale: le politiche fiscali.
“L’Unione bancaria può spezzare il circolo vizioso fra banche e debito sovrano, riconducendo quest’ultimo a ciò che dovrebbe essere: un asset privo di rischi“. Ma perché si arrivi a questo è necessario stringere i controlli sui deficit fiscali degli stati e impedire che le banche li finanzino. Ciò può ottenersi soltanto “rinforzando le regole fiscali comuni”.
Ecco, ancora una volta, il principio di sussidiarietà all’opera: gli stati non gestiscono la politica fiscale in maniera efficace, quindi è meglio, nell’interesse dei cittadini, che la deleghino a organismi sovranazionali che agiscono nell’interesse del mercato unico. “Questi cambiamenti rappresentano un trasferimento di poteri al livello europeo, ma proprio come l’unione bancaria, io non vedo questo come una perdita di sovranità”.
D’altronde sarebbe strano che dicesse il contrario.
Infine una notazione sul futuro di questa scommessa: “Nei giorni neri della crisi molti commentatori americani erano convinti che il progetto delll’euro area sarebbe fallito. Ma costoro hanno sottostimato la profondità dell’impegno europeo nell’euro. Hanno scambiato l’euro per un regime di tassi fissi quando, in effetti, è una moneta unica irreversibile. Ed è irreversibile perché nasce dall’impegno delle nazioni europee per una maggiore integrazione che ha le sue radici nel nostro desiderio di pace, sicurezza e di trascendere le nostre differenze”.
Insomma, per Draghi, e per tutti coloro che ci stanno lavorando, l’Europa non è un’utopia ma, per dirla con le parole di Keynes, un’eutopia.
In inglese si pronuncia allo stesso modo, ma il significato delle due parole è profondamente diverso.
L’Utopia è un luogo meraviglioso, ma irraggiungibile.
L’Eutopia è qualcosa di altrettanto meraviglioso, ma possibile.
Keynes rese celebre questo termine quando presentò, il 4 agosto 1942, la quinta versione del suo documento che proponeva una profonda revisione del sistema monetario internazionale, basato su una unità di conto comune (e quindi un’unione monetaria internazionale) e una clearing house. Il documento si intitolava The international Clearing Union, e recava il sottotitolo: Not Utopia, but Eutopia, a voler sottolineare che non si trattava di un progetto utopistico, ma della progettazione di uno spazio internazionale ben costruito, grazie ad importanti cessioni di sovranità, per favorire il riequilibrio delle bilance dei pagamenti e l’incontro pacifico fra i popoli.
A sentire Draghi, sembra che l’eutopia keynesiana abbia ispirato non poco gli architetti dell’Unione europea.
Not Eutopia, but Eu-topia.