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Il capitale di Bankitalia e le tre scimmiette sagge

Bisogna scomodare il folklore popolare giapponese per capire l’ultima geniale manovra che sta maturando della nostra classe dirigente.

Proprio come le tre scimmiette sagge nipponiche, industriali, banchieri e politici italiani non vedono, non sentono e non parlano.

Fanno un’eccezione quando si tratta del bene comune, ossia le famose buone intenzioni di cui è leastricato l’inferno. E allora le nostre scimmiette diventano assai loquaci, attente e occhiute, pure a scapito della saggezza.

Faccio un passo indietro e vi do alcune notizie.

La prima, ormai notoria, è l’inizio della asset review da parte della Bce del bilanci delle banche europee con tutto ciò di turbolento che può provocare sulle nostre banche.

La seconda notizia, collegata alla prima, è arrivata da uno studio di Mediobanca, secondo il quale i crediti dubbi delle banche italiane (sofferenze, incagli, ristrutturati e scaduti) sono passati dal 2,7% del totale nel 2007 al 9,5% del 2013: +251%, mentre il peso di questi crediti dubbi sul totale del capitale netto è arrivato all’81%.

La terza notizia l’ha data il presidente di Confindustria Squinzi, durante la sua audizione in Commissione Bilancio del Senato.

Squinzi ha suggellato col peso della sua autorevolezza la vulgata secondo la quale la rivalutazione delle quota di Bankitalia potrebbe portare al fisco circa 1,6 miliardi di euro. L’attuale valutazione di 156 mila euro delle quote di Bankitalia, ”è assolutamente lontana dalla realtà”, spiega. “Secondo alcuni economisti il valore reale si aggirerebbe su 23-24 miliardi, ma mi dicono che questo non è tecnicamente possibile. Gira voce di una valutazione di 7-8 miliardi su cui anche Bankitalia sarebbe d’accordo. Questo permetterebbe, con un’imposizione fiscale del 20%, di recuperare 1,5-1,6 miliardi da destinare agli impegni richiesti dalla Finanziaria”.

Ma la notizie, vedete, non è tanto l’entità dell’incasso fiscale, che comunque è un’inezia rispetto al bilancio dello Stato, ma il fatto che la voce degli industriali si sia unita a quelle di tanti politici e banchieri, che sulla storia delle quote di Bankitalia ci stanno costruendo la loro fortuna.

Le nostre tre scimmiette hanno identiche vedute sul capitale di Bankitalia.

Prima di approfondire, è utile ricordare che Bankitalia ha un capitale sociale le cui quote, per motivi storici che potete facilmente approfondire on line, sono in capo ai principali gruppi bancari e assicurativi italiani e all’Inps. L’argomento della proprietà privata delle quota della banca centrale è talmente gettonato fra chi segue questa roba (e tanto benzina fornisce al fuoco delle polemiche sulla finanza ladrona) che non vale la fatica riproporlo.

Anche perché non è questo quello interessante.

La cosa interessante è la convergenza di vedute della nostra classe dirigente, sempre d’accordo quando si tratta di fare operazioni per il bene pubblico, specie coi soldi pubblici, quando sembrano a costo zero e a somma positiva per tutti.

Ma è davvero così?

Rivalutare le quote di Bankitalia, quindi portare il valore attuale a 7-8 miliardi, significa che, in teoria ci guadagnano tutti.

Lo Stato guadagna il suo bel dividendo fiscale, calcolato secondo l’aliquota del 20% (redditi da capitale) perché la rivalutazione contabile delle quote corrisponde a un capital gain per le banche. E magari col suo miliardo e rotti abbassa un altro po’ il cuneo fiscale per le imprese e i lavoratori. In generale, la politica ci guadagna la sua bella figura, per aver risolto una situazione senza gravare sulle nostre tasse.

Le banche guadagnano sia sul lato dei redditi, sia – cosa più rilevante – sul lato del capitale, visto che una rivalutazione degli attivi impatterà sui suoi requisiti patrimoniali le metterà in condizione di affrontare il setaccio di Bruxelles con più tranquillità.

Le imprese ci guadagnano perché, cuneo fiscale a parte, avere banche più stabili di sicuro è meglio per un sistema industriale che ha debiti intorno al 100% del Pil.

Tutti contente, le nostre scimmiette sagge.

E Bankitalia, dice Squinzi “sarebbe pure d’accordo”. Chissà cosa ne dice la casa madre a Francoforte.

Ma noi che non siamo scimmiette lo sappiamo che non esistono pasti gratis.

E quelli fra di noi più avveduti sanno anche che di solito chi contrabbanda pasti gratis finisce sempre con lo scaricarli sul bilancio dello Stato.

Ma che danni può fare una proposta del genere?

Il primo danno è reputazionale. Non appena la politica ha provato a lanciare il sasso, nel settembre scorso, il Wall Street Journal ha scritto un articolaccio sui trucchi che le banche italiane stanno mettendo in piedi per salvarsi dall’occhiuto esame della Bce (noi e quelle spagnole, a dirla tutta). E questo certo non è un buon viatico per la finanza nostrana e il sistema Paese che dipende dagli acquisti esteri dei suoi titoli di stato.

Ma quello sarebbe il meno.

Il peggio è l’aspetto economico.

La Banca d’Italia, infatti, paga ogni anno un dividendo ai propri azionisti come fa una qualunque società pescando le risorse dall’utile d’esercizio.

Lo statuto di Bankitalia, agli articoli 39 e 40 disciplina con chiarezza le modalità e le quantità di tale dividendo. In particolare determina che (art. 39) “ai partecipanti sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale”. In aggiunta a questa cifra “può essere distribuito ai partecipanti, ad integrazione del dividendo, un ulteriore importo non eccedente il 4% del capitale. La restante somma è devoluta allo Stato”.

L’aticolo 40 dello statuto disciplina i frutti delle riserve della Banca. Da tali rendimenti può “essere prelevata e distribuita ai partecipanti, in aggiunta a quanto previsto dall’articolo 39, una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve medesime, quali risultano dal bilancio dell’esercizio precedente”.

Vediamo in pratica cosa comporta.

A pagina 298 dell’ultima relazione annuale della Banca d’Italia leggo le proposte del Consiglio superiore, ossia l’organo che amministra la Banca, relative alla distribuzione dell’utile dell’esercizio 2012, che è stato pari a circa 2,5 miliardi. Di questi, 500 milioni sono finiti a riserva. Altri 500 milioni sono andati a riserva straordinaria. Ai partecipanti al capitale, ossia le banche azioniste, sono stati riservati utili per 9.360 euro (il 6% del capitale) e altri 6.240 euro (il 4% del capitale) aggiuntivi. Allo Stato è andata la somma di 1.5 miliardi di euro. Poi, a norma dell’articolo 40, quindi a valere sui frutti delle riserve, i partecipanti al capitale hanno incassato altri 70 milioni di euro, “pari allo 0,5% dell’ammontare complessivo delle riserve”. Pertanto ai partecipanti al capitale sono andati 70,041 milioni di euro, pari a circa 233 euro per ogni quota detenuta.

Questo è lo stato dell’arte.

Ma cosa succederebbe se il capitale della Banca d’Italia anziché valere 156mila euro valesse 7 miliardi?

Facile: il 6% di 7 miliardi vale 420 milioni di euro. Un altro 4% vale 280 milioni. Quindi il totale del dividendo dovuto ai partecipanti sarebbe di 700 milioni di euro. Soldi che, di conseguenza, non sarebbero più trasferiti allo Stato, che non avrebbe più incassato 1,5 miliardi ma solo 800 milioni.

A bocce ferme basterebbero un paio di anni di questi dividendi per recuperare le tasse versate allo Stato in sede si rivalutazione per il capital gain. Un affarone (a spese dello Stato). Peraltro i minor incassi per lo Stato dovrebbero essere coperti da nuove entrate o nuovi tagli. Ma su questo tutti glissano.

E poi c’è un’altra questione.

Prima o poi il tema del rientro nella disponibilità pubblica delle quote di Bankitalia tornerà d’attualità. E’ chiaro a tutti che quote rivalutate a 7 miliardi provocherebbero un corrispettivo assai più gravoso per le casse dello Stato rispetto a quote valutate 156 mila euro un domani che tale operazione si dovesse concretizzare.

Vi è chiaro il gioco a questo punto?

Le banche, con la benedizione dei politici e della Confindustria, darebbero oggi uno per riprendere chissà quanto più domani.

E io pago, direbbe Totò.

Ma su queste conseguenza le tre scimmiette tornano ad essere sagge: non vedono e non sentono.

E, soprattutto, non parlano.

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