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Il silenzioso ritorno del protezionismo

Quello che la crisi mette in ombra, accendendo i riflettori sulla finanza impallata e gli stati mezzi falliti, è che la vera vittima dei suoi guasti è il commercio internazionale, ossia ciò per il cui sviluppo tutto questo mondo libero e bello è stato costruito.

Una nemesi.

Sta succedendo quello che tutti dicevano non sarebbe più successo, forti della memoria depressiva degli anni ’30.

Sta succedendo quello che tutti dicevano non sarebbe più successo se si fossero lasciati gli stati liberi di de-regolamentare e la finanza libera di circolare.

Sta tornando il protezionismo.

D’altronde, perché stupirsi. E’ del tutto naturale subire la tentazione di chiudersi in casa quando piove e fa freddo. E poiché l’inverno del nostro scontento sembra non aver mai fine, era giocoforza succedesse che gli stati iniziassero a vedere il proprio vicino non più come un’opportunità, ma come un problema.

Quando le risorse diminuiscono, si cerca sempre di tenere il proprio fieno nella propria cascina.

Senonché tutto questo potrebbe apparire come una semplice (e inutile) elucubrazione, se non fosse per un rapporto pubblicato a giugno scorso dal Cepr e redatto dal Global Trade Alert eloquente già dal titolo: “Protectionism’s Quiet Return”.

Questo ritorno silenzioso non deve ingannare. Sarà più silente, ma è altrettanto aggressivo e subdolo. “I provvedimenti protezionistici imposti fra l’ultimo quarto del 2012 e il primo quarto del 2013 rappresentano per numero un record da quando il GTA ha iniziato il suo monitoraggio”, recita il rapporto.

Un altro elemento? “Da giugno 2012 a maggio 2013 sono stati emesse il triplo di misure protezionistiche rispetto a misure di liberalizzazione”. Per la cronaca, sono state 431 le prime e 141 le seconde.

Allora uno pensa: queste brutte pratiche devono essere appannaggio dei soliti paesacci arretrati. E invece no: “Le nazioni del G8 sono responsabili del 30% di questi provvedimenti protezionistici imposti negli ultimi 12 mesi. Se si includono le nazioni del G20 si arriva al 65%”. Tanto è vero che proprio le nazioni del G8 sono quelle più frequentemente colpite da politiche del tipo beggar-thy-neighbour, ossia pratiche commerciali scorrette che tendono a scaricare sul paese vicino i costi della competizione godendosene i vantaggi.

Quello che potevamo immaginare, pur senza conoscerne l’entità, è che il paese più colpito da misure protezionistiche sia la Cina, oggetto di un migliaio di provvedimenti restrittivi del commercio dal 2008 in poi.

Vi sembra parecchio? allora considerate che l’America, nello stesso periodo, è stata colpita da ben 800 provvedimenti restrittivi.

Non vi stupisce che la Cina e l’America siano i colossi verso i quali si indirizza il nascente protezionismo?

A me fino a un certo punto. in fondo sono loro quelli che muovono gran parte del commercio internazionale.

Il rapporto ci fornisce alcuni altri elementi di riflessione.

Il primo è che le pratiche protezionistiche usano lo strumento del sussidio di stato più di quello “classico” del vincolo all’importazione. E tuttavia tali forme tradizionali di protezionismo – tariffe o dazi – rappresentano ancora un po’ meno del 40% delle pratiche protezionistiche”.

Il secondo è la conclusione, persino, divertente: “Dall’inizio della crisi, i governi sono diventati molto creativi nell’eludere la disciplina del WTO”.

In questa istruttiva classifica, troviamo che “Argentina, Cina, India e Italia appaiono nella top five delle nazioni più protezioniste”, mentre l’Ue a 27 è addirittura al primo posto per numero di misure protezionistiche adottate, seguita dalla Federazione Russa, dall’Argentina, dall’India, dalla Bielorussia, dalla Germania, dal Regno Unito, dall’Italia, la Francia e il Brasile.

Che l’Unione europea detenga questo poco commendevole primato stupirà di sicuro gli alfieri del mercato unico come strumento per la promozione del commercio internazionale. Ma si sa, fra il dire e il fare ci sono di mezzo corposi interessi che spesso fanno strame dei buoni principi teorici.

Sempre per la cronaca, il nostro paese è secondo nella classifica per il numero di settori interessati da misure di protezionismo (dopo l’Ue a 27) e sempre secondo nella lista di coloro che danneggiano i partner con queste misure (sempre dopo l’Ue a 27).

Questi dati ci consentono di guardare sotto una luce completamente diversa il nostro commercio estero. Ma, sempre in teoria, anche la crescita risicata del nostro Pil, atteso che il pensiero economico mainstream assegna al commercio internazionale il ruolo di alfiera della crescita.

Se spostiamo l’analisi dall’ultimo anno agli ultimi cinque, quindi dal 2008 in poi, cambia poco. L’Ue a 27 è la prima per misure protezionistiche imposte, per il numero dei settori a cui fanno riferimento e per numero di partner che ne hanno subito le conseguenze.

Anche l’Italia mantiene le sue posizioni. A dimostrazione del fatto che l’Europa, eurozona compresa, è molto brava a predicare bene e a razzolare male.

Se andiamo poi a guardare le schede dei singoli paesi, scopriamo ad esempio che la Germania ha subito 1.082 provvedimenti che hanno danneggiato i suoi interessi commerciali, di cui 806 ancora vigenti. A Fronte di ciò, la Germania ha messo in campo 158 misure protezionistiche di cui 14 ancora vigenti.

L’Italia dal canto suo ne ha subite 939, di cui 687 ancora in essere, e ne ha inflitte 150, 12 delle quali ancora in forza.

Mi fermo qui, anche perché i dati degli altri paesi considerati non si discostano poi tanto da queste cifre.

Il succo è semplice: aldilà dei buoni propositi, la crisi ha devastato il commercio internazionale. E questo di certo non ha giovato ai vari Pil regionali.

A furia di mettere fieno in cascina i paesi avanzati rischiano di bruciarlo.

Tutto ciò non può che nuocere alla causa del riequilibrio, visto che il commercio internazionale dovrebbe essere uno dei suoi principali strumenti operativi.

Un fantasma degli anni ’30 si aggira per il mondo.

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