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Il Tao dell’eurozona

Sta a vedere che è tutta una questione filosofica. Che ci siamo scervellati per anni appresso alle statistiche e alle teorie economiche e invece avremmo dovuto rileggere i classici cinesi per capire la sostanza esatta del problema che affligge noi europei e, in particolari, noi eurodotati.

Per fortuna, ancora una volta, ci pensano i banchieri centrali a farci notare che i nostri tormenti nascono da una profonda interrelazione che non solo non si scioglie, ma che non è neanche districabile: quella fra l’equità e l’efficienza. Non risolvibile perché tale dicotomia è inerente allo spirito (economico) europeo proprio come lo yin e lo yang lo sono relativamente alla sostanza della realtà nella filosofia cinese, per usare un felice parallelismo tratteggiato da Andreas Dombret, componente del board della Bundesbank, in un discorso tenuto il 17 ottobre scorso al Peterson Insistute di Washington.

Il banchiere filosofo è uno dei frutti più straordinari della Grande Depressione.

Poi, certo, ci sono numeri e teorie. Ma vale la pena seguire il filo del ragionamento di Dombret perché chiarirà la posta in gioco molto più di tante elucubrazioni economico-politiche.

Il primo punto, spiega Dombret, è il pressoché unanime riconoscimento che le ragioni della crisi europea sono insieme imputabili a carenze dei singoli stati e a carenze del contesto normativo sovranazionale. Il castello europeo ha scricchiolato sinistramente nei giorni più bui della crisi e tuttora si tiene in piedi grazie sostanzialmente alle politiche espansive della Banca centrale europea e alle promesse politiche portate avanti dall’Ue, Unione bancaria in testa. Mentre a livello nazionale, gli stati fragili sono stati chiamati a dover farei conti con politiche di austerità senza precedenti per rientrare dai propri debiti. Senza che ciò, aggiungo io, abbiamo minimamente condotto a chiamare in causa i paesi creditori, che, come ormai è ampiamente riconosciuto, hanno le loro colpe.

Se questo è il contesto, si chiede il banchiere, come mai c’è così tanto disaccordo sulla terapia giusta da seguire?

“Il mio punto di vista di partenza – spiega – è una delle classiche linee di faglia della teoria economica: quella fra equità ed efficienza”.

Dombret definisce l’equità come “il modo in cui si distribuiscono le risorse fra i membri della società” e l’efficienza come la scelta “di allocare risorse nel modo più produttivo”. “Oggi – sottolinea – equità ed efficienza sono lo yin e lo yang dell’economia”.

“Proprio come nella filosofia cinese – osserva – yin e yang non sono forze che si oppongono, ma concetti interrelati”. Significa che “non è una questione di scegliere fra l’uno o l’altro, ma una questione di gradazione: questo è il cuore del dibattito che oggi si sta svolgendo su come risolvere la crisi dei debiti sovrani”.

Alcuni analisti, dice, tendono a privilegiare l’equità, attraverso la condivisione del debito. Altri privilegiano l’efficienza attraverso la costruzione di incentivi a fare meglio.

Poiché anche i filosofi hanno le loro opinioni, già da ora si può capire dove si orientano le preferenze del banchiere.

Ma non è questo il punto. Ciò che conta è rilevare che il nocciolo di questo problema si presenti sia nel dibattito sull’Unione bancaria, sia in quello sull’Unione fiscale, sia in quello su come ribilanciare i saldi di conto correnti nell’eurozona, sia in quello, dulcis in fundo, sugli eurobond.

Su questi ultimi due si concentra l’attenzione di Dombret.

Gli squilibri interni all’eurozona, spiega, “in principio non erano un problema in sé”. Salvo poi accorgersi che non solo erano una barriera verso una crescita sostenibile, ma anche un elemento di instabilità per l’Unione monetaria. “Da qui il bisogno di riequilibrare l’Europa”.

“Uno dei canali attraverso il quale un saldo di conto corrente insostenibile si può riequilibrare è il tasso di cambio. Ma in un’Unione monetaria, tuttavia, usare il tasso di cambio non è più un’opzione: La sola opzione è un aggiustamento interno attraverso i prezzi, i salari, l’occupazione e la produzione”. La famosa medicina tedesca.

Da qui il dibattito su chi dovesse farsi carico di un tale aggiustamento, se, vale a dire il conto dovessero pagarlo in paesi in deficit – la famosa austerità – o i paesi in surplus – le famose politiche espansive con messa in comune dei debiti. “In essenza – dice il nostro filosofo – questo dibattito è quello fra la condivisione dei debiti (equità) e l’efficienza”.

Citando Krugman, Dombret spiega che secondo l’economista americano la Germania, visto che i paesi in deficit hanno visto scendere il proprio livello di competitività, dovrebbe aumentare i salari per, di fatto, far diminuire la propria. In tal modo i flussi commerciali si sarebbero riequilibrati e i saldi sostanzialmente pareggiati: “Il peso del rebalancing sarebbe stato condiviso”.

Ma il nostro banchiere è scettico. Da una stima prodotta dalla Buba questa strategia, alla lunga, si sarebbe rivelata controproducente. I tecnici hanno ipotizzato un incremento dei salari tedeschi del 2% in più rispetto a quello normalmente ottenibile con la contrattazione collettiva. Quindi hanno usato un modello economico per calcolare gli effetti di tale scelta sui flussi di esportazioni nelle aree perfieriche dell’Europa. E’ venuto fuori che i cambiamenti di tali flussi sarebbero poca cosa. “Solo l’Irlanda potrebbe aspettarsi una crescita moderata delle esportazioni. allo stesso tempo la Germania verrebbe colpita. A seconda del modello impiegato, l’occupazione scenderebbe fino all’1% e la produzione dello 0,75%. Non ci sarebbero pasti gratis, in termini di salari più elevati e maggiori esportazioni per i paesi in deficit”.

Senza contare poi l’obiezione “sistemica”. Poiché viviamo in un mondo globalizzato, dice, non ha senso diminuire la competitività tedesca quando invece dovrebbe migliorare l’intera competitività europea rispetto al mondo. “Per avere successo l’Europa deve diventare più dinamica, più creativa e più produttiva”. Sottotitolo: gli altri imparino a fare i tedeschi, non sono i tedeschi che devono imparare a fare gli spagnoli.

Nessuno si stupirà di questa affermazione. La Germania ha scelto da un pezzo il suo grado di interrelazione fra equità ed efficienza.

E infatti, nota Dombret, “l’aggiustamento dei conti correnti è in corso e doveva partire dai paesi in deficit. Riformare i loro modelli è più promettente in vista del riequilibrio”. Lo dimostra il fatto, sottolinea, che i saldi di conto corrente dei paesi in crisi stanno migliorando. Quindi l’efficienza sta facendo il suo corso, ma dove sta l’equità? “Cosa sono i pacchetti di salvataggio e le altre garanzie pubbliche e i prestiti interni garantiti per facilitare l’aggiustamento?”, chiede. “Abbiamo avuto lo yin e lo yang: il peso del debito è stato condiviso e l’efficienza è aumentata”.

Il prezzo di questa efficienza ovviamente, è uno di quei dettagli collaterali che di solito non impegnano i filosofi.

Ancora più espicito è il riferimento agli eurobond.

L’eurozona, ricorda Dombret, è una singolare combinazione fra una politica monetaria comune e una politica fiscale nazionale, per cui la politica monetaria è decisa dalla Bce e quella fiscale dai singoli stati. “Questo squilibrio di responsabilità dà ai paesi individuali l’incentivo a prendere in prestito”. Un “deficit bias”, lo chiama, il che implica l’assunto che il deficit sia sinonimo di inefficienza, anche se questo Dombret non lo dice.

Dice però che ”il nostro obiettivo dovrebbe essere contrastrare questo pregiudizio di deficit” e questo può essere fatto solo “riequilibrando le responsabilità”.

In sostanza, concedere gli eurobond, e quindi far prevalere il principio della condivisione del debito (equità) significherebbe introdurre il “deficit bias” al livello dell’eurozona, “mentre le decisioni di spesa rimarrebbero a livello nazionale. E questo andrebbe a detrimento del principio di efficienza.

“Gli eurobond offrirebbero un sollievo temporaneo, ma distorcerebbero l’equilibrio fra responsabilità e controllo”, dice. “Ma se vogliamo riallineare responsabilità e controllo per stabilizzare l’Unione monetaria abbiamo due opzioni: la prima è incrociare a livello europeo responsabilità e controllo”, quindi una piena unione fiscale. Ma, ammette Dombret, è un percorso ancora lungo perché gli stati, compreso quello tedesco, non sono ancora pronti.

La seconda opzione è rinforzare il controllo a livello statale creando una sorta di Maastricht 2.0, che stabilisca regole più stringenti sui prestiti che magari stavolta vengano rispettate.

Quindi niente eurobond finché una di queste due opzioni non verrà messa in campo, pena “nel lungo periodo la destabilizzazione dell’Unione monetaria che danneggerebbe tutti noi”.

Qual è la conclusione? “La solidarietà e la condivisione dei debiti sono valori importanti nell’integrazione europea, specie nei momenti di crisi. Ma questo processo implica anche la costrUzione di un futuro più stabile che richiede strutture efficienti. Dobbiamo quindi trovare un giusto equilibrio fra equità ed efficienza”. In fondo i teorici delle due sponde “non sono così distanti fra loro e tutti condividono lo stesso obiettivo: una unione monetaria stabile”.

Quindi, sembra di capire, se l’Europa vorrà essere equa dovrà pagare il prezzo di una maggiore efficienza che, inevitabilmente, implicherà una diminuizione della solidarietà, che “è un valore importante”, ma anche una fonte di inefficienza, visto che i due concetti sono filosoficamente “avversari”.

Tale prezzo dovrà essere pagato dagli stati nazionali, a cominciare da quelli in deficit, a beneficio delle istituzioni sovranazionali, che – di fatto – diventeranno i gestori dell’Europa.

Tutto questo in vista del Grande Obiettivo: “Un’unione monetaria stabile” che è condiviso da tutti.

Il Tao dell’eurozona.

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