Un coro, anzi un sospiro di sollievo: tutti adesso fanno a gara nel lodare la fine dei salotti buoni. Sarà poi vero? E che conseguenze avrà? Il capitalismo italiano potrà tenersi in piedi senza protetti né protettori?
La tela di Cuccia
La matassa si scioglie perché si dissolve la materia con la quale era intrecciata: le grandi famiglie alla cui tutela Enrico Cuccia si era dedicato fin dagli anni ’50, seguendo le sue radicate convinzioni, cioè che l’imprenditoria nazionale fosse troppo povera di capitali per andare avanti da sola e che si dovesse proteggere la finanza e l’industria privata dall’espansione famelica dello stato pigliatutto, guidato dal partito-stato per eccellenza, la Democrazia cristiana.
Capitalisti vecchi e nuovi
I capitalisti che “il biondino dagli occhi di ghiaccio” aveva curato con pazienza e severità paterne (guai a chi si metteva di traverso) non esistono più: qualcuno è crollato fragorosamente come Ligresti, altri si estinguono con il passaggio generazionale (pensiamo a Lucchini) o se ne vanno all’estero (Agnelli, Pesenti, Merloni, Pirelli, tanto per fare dei nomi). Al loro posto sono emersi soggetti in gran parte nuovi o rinnovati: i protagonisti del quarto capitalismo (Luxottica, Ferrero, Barilla, Della Valle, Brembo), le multinazionali tascabili, le piccole donne in crescita (le medie aziende esportatrici), i cespugli del Censis che diventano pianta. Tutti insieme hanno salvato la posizione dell’Italia nel commercio mondiale evitando un vero declino industriale. Sono arrivati, però, al limite delle loro possibilità.
I piccoli e i grandi
Se poi guardiamo alla dimensione media dei gruppi privati, sempre secondo i calcoli di R&S, vediamo che si è accentuata la distanza tra i primi e gli altri. Anzi, oggi c’è un fossato persino tra il numero uno e il numero due. Exor-Fiat è quattro volte più grande di Luxottica che, a sua volta, è il doppio di Pirelli. E tutte, Fiat compresa, restano indietro rispetto ai colossi mondiali. Proprio la piccola dimensione è uno dei fattori che rende più fragile l’industria italiana sul mercato globale. Anche il quarto capitalismo ha bisogno di sostegno.
Alla ricerca di una nuova Mediobanca
Stando così le cose, occorre una nuova Mediobanca? Cuccia è morto, evviva Cuccia? La gara per l’eredità del “lord protettore” è aperta da tempo. Lo scontro dentro Intesa che ha portato alla defenestrazione di Enrico Cucchiani e al ritorno in grande stile di Giovanni Bazoli nasconde proprio questo. Il patron della Banca Intesa resta convinto che in Italia ci vuole una grande banca a supporto dei campioni nazionali e delle scelte strategiche. In fondo, Bazoli fin dagli anni ’80 è sempre stato il vero rivale di Cuccia e venne scelto da Beniamino Andreatta per rifondare l’Ambrosiano creando attorno ad esso un polo alternativo a quello di via Filodrammatici. Ha assorbito la Cariplo, il salvadanaio della ricca Lombardia, e persino la Commerciale, il tempio della finanza laica, dove è stata concepita Mediobanca.
Il valore aggiunto di Bazoli
Il vecchio avvocato della Brescia cattolica, diventato grande banchiere, ha qualche marcia in più, culturale e politica prima ancora che economica, rispetto ai giovani tecnocrati anglofoni che hanno rimpiazzato Cuccia. Ma se la questione fosse tutta qui, allora sarebbe il racconto di una rivincita personale, per ricreare, alla fine della fiera, un residuo del passato.
La banca di Mefistofele
Che cosa serve, invece, al nuovo capitalismo italiano? E, di conseguenza, chi può fornire lo strumento migliore? Ecco le domande che contano davvero. Se vogliamo tirare qualche buona lezione dalla storia, dobbiamo rileggere proprio il dibattito tra Raffaele Mattioli e Cuccia sulla funzione di Mediobanca. “Le banche – scriveva nel 1960 il gran capo della Commerciale – sono collocate ai crocicchi dell’economia, ma non come briganti in agguato, bensì come vigili che regolano il traffico”. E aggiungeva, criticando la tendenza a trasformare i prestiti in assistenza o ciambelle di salvataggio: “Di fronte alla moltitudine degli operatori economici, la banca è un po’ come Mefistofele nella cantina di Auerbach: Libera scelta per tutti. Sciampagna, Tokai, Borgogna, Reno…” In sostanza, l’obiettivo non è fornire credito agevolato, ma aiutare le imprese a pensare in grande, a compiere salti di qualità e dimensione, insegnando loro a nuotare nel mare procelloso del mercato finanziario.
Le casse e la Cassa
Oggi che gli steccati si sono abbassati, il capitale è abbondante come il vino di Auerbach e in più scorre alla velocità della luce, la crisi ripropone l’esigenza di nuovi vigili ai crocicchi. I modelli sono molti e molto diversi. Non esiste una banca che accompagni per mano e sostenga la crescita delle nuove imprese italiane. Nessuna è forte a sufficienza per proporsi come “primo motore immobile” e nello stesso tempo mancano strumenti alternativi, a cominciare dai sempre citati fondi pensione. Così, il Fondo strategico italiano presso la Cassa depositi e prestiti, ricca di buoni postali, viene spinto a prendersi sulle spalle gruppi in difficoltà, contro il suo stesso statuto. E si evoca lo spettro dell’Iri, magari nella versione originaria di Mattioli e Alberto Beneduce.
Morale
La confusione è grande sotto il cielo e la situazione non è affatto eccellente. Stenta a decollare una seria riflessione mentre si resta con il gusto amaro di certi salvataggi degli amici (come Romain Zaleski) o di mezzucci da dozzina tipo i foglietti per la buonuscita ai Ligresti. Pizzini sulfurei ispirati, questi sì, dal faustiano Mefistofele.
Stefano Cingolani
(la versione estesa dell’analisi sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista Formiche)