1.259 rastrellati, 1.023 deportati. 16 tornati a casa. La retata degli ebrei romani – 16 ottobre 1943, in questi giorni saranno settant’anni ‒ è a buon diritto passata alla storia come il Sabato nero di Roma. Quel giorno segna il culmine della fase di razzismo effettivo del regime fascista: dall’introduzione delle leggi razziali non sono passati che cinque anni. Il contributo dato da Roma alla soluzione finale è di 363 uomini, 689 donne e 207 bambini. 237 di loro vengono rilasciati perché stranieri o membri di famiglie e unioni miste. Gli altri partono per Auschwitz. 820 di loro saranno mandati alle docce appena scesi dal treno.
La deportazione degli ebrei romani è uno degli atti più gravi di cui si sia macchiata l’Italia fascista. Il regime che ne è responsabile è ormai deposto (il 16 ottobre 1943 è anche il giorno in cui da Milano il Partito fascista repubblicano da poco sorto dalle ceneri del Pnf comunica la chiusura del tesseramento), ma il blitz dei tedeschi al ghetto ne risulta un micidiale colpo di coda. A fornire alla Gestapo gli indirizzi aggiornati di tutti gli ebrei di Roma provvederanno i registri dell’ufficio Demografia e razza del ministero dell’Interno, compilati con zelo per ottemperare l’obbligo di censimento imposto dal nuovo corso. Né all’aiuto ufficiale mancherà quello ufficioso: i non pochi romani che si vendono gli indirizzi dei nascondigli degli ebrei a cinquemila lire l’uno (gli unici italiani di cui Kappler si fida in tutta la vicenda; l’ordine di includere solo tedeschi nei 365 partecipanti all’azione sarà tassativo) rappresentano una delle istantanee più infami dell’intera vicenda.
Tanto vergognosa la pagina del rastrellamento del ghetto di Roma e tanto gravi le colpe preesistenti del regime fascista da chiedersi come sia stato possibile per Italia ed Israele sviluppare e mantenere relazioni positive fin dall’inizio (la firma del primo Trattato di amicizia, commercio e navigazione arriverà nel 1954, nemmeno dieci anni dalla fine della guerra).
Di sicuro il radicale mutamento del quadro geopolitico e la presenza di leader illuminati come David Ben-Gurion e Alcide De Gasperi hanno giocato un ruolo decisivo, ma c’è dell’altro. C’è dell’altro e di più profondo se Italia e Israele, con le ferite della più grande tragedia della storia ancora fresche, erano già in grado di immaginare una strada comune da percorrere in amicizia.
Un qualcosa di talmente profondo che le sue radici si possono trovare persino nell’orrore del Sabato nero. Questi elementi sono il comportamento della Chiesa da una parte e quello della gente comune dall’altra. Ed è in questi elementi che si rivela quanto saldo e quanto sincero fosse il sentimento di rispetto e fratellanza nutrito dagli italiani nei confronti del popolo ebraico, e quanto nessuna forza occupante al mondo fosse in grado di spegnere quella fiammella di umanità.
Dell’atteggiamento del Vaticano si è dibattuto per decenni. Affievolitesi nel tempo le voci più ostili a Pio XII, e venuta meno l’egemonia della scuola di pensiero che voleva la Santa Sede attore pavido e rinunciatario nella vicenda ed imputava a Pacelli la mancata pubblica presa di posizione (come se fosse dai comunicati che si giudica un Papa), la realtà dei fatti si è andata ristabilendo. Realtà da cui emerge che grazie a Pio XII furono salvati migliaia di ebrei.
Silente in pubblico, il Papa dà immediatamente privata disposizione affinché chiese, conventi e seminari aprano le porte agli ebrei in cerca di asilo. Si attiva una rete di cento case di suore, quarantacinque conventi di religiosi e dieci parrocchie. Le suore da sole ne salvano 2.775, in tutto saranno quasi cinquemila. C’è chi ha calcolato in settecentomila gli ebrei complessivamente salvati da Pio XII. Quale che sia la contabilità, il punto fermo resta il seguente: la Chiesa cattolica – in quel momento peraltro unico attore politico di prima grandezza fisicamente presente in territorio romano – ha fornito al popolo ebraico il massimo aiuto.
Se oltretevere la diplomazia prevale sull’azione, tra la popolazione avviene il contrario: la generosa reazione della gente comune è di pura fisicità. Per uno che si vende i nascondigli, infatti, ce ne sono dieci che i nascondigli li hanno prima preparati e poi riempiti. Per uno che fa una soffiata, ce ne sono dieci che si mettono di traverso sulla porta per rallentare i soldati tedeschi e dare tempo agli ebrei di mettersi in salvo. “La parte antisemita della popolazione non è comparsa durante l’azione” riferirà Kappler con una certa sorpresa: se mai i tedeschi avevano prese per buone le rassicurazioni dell’alleato circa il profondo radicamento popolare della nuova legislazione razzista, quel malinteso finisce di fronte all’atteggiamento “inequivocabilmente di resistenza passiva” tenuto dalla popolazione. Come la donna cattolica finita nella retata e portata alla Lungara che rifiuta di essere rilasciata pur di non lasciare solo il piccolo orfano ebreo che le era stato affidato, così i romani, in stragrande maggioranza, si rifiutarono di lasciare sola la comunità ebraica.
Che negli anni Italia e Israele abbiano costruito un rappordo solido e leale e che questo rapporto sia rimasto tale anche nei momenti meno facili, a questo punto, è qualcosa che non stupisce. Perché si tratta di un rapporto che va al di là della politica, e che rappresenta prima di tutto un abbraccio fra popoli fratelli. Un rapporto che è per me motivo di orgoglio avere contribuito a consolidare durante i miei anni da ministro degli Esteri, lavorando nel solco di quanti erano venuti prima di me e preparandolo per chi sarebbe arrivato dopo: vedere come l’attuale governo si stia muovendo nella direzione giusta in questo senso, mi rende perciò doppiamente felice. Perché certi legami sono più forti di tutto, anche dell’orrore.
Franco Frattini, Presidente della società italiana per l’organizzazione internazionale, già ministro degli Esteri e vicepresidente della Commissione europea.
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