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La camorrista, il nuovo libro di Francesco Palmieri

Solo coloro che hanno un’anima, e non il moderno animo tapino, possono provare emozione udendo questo canto di cronaca. Dello struggersi che, un istante prima del punto che chiude il racconto, si consuma a mezzo di risucchio dal di dentro e che toglie il respiro.
Solo coloro che nella vita sanno vedere intorno i vivi e i morti, e sanno ascoltare i secondi ancor più profondamente dei primi, sapranno sentire la vertigine pura prodotta dai fatti che passano sotto gli archi d’oro del passato. Sono i fatti de La Camorrista, ebook Mondadori, narrati da Francesco Palmieri.
C’è il sangue. Perché non c’è anima senza cuore e il cuore è una pompa che a vuoto non può funzionare. Il cuore irrora la vita, il sangue imbratta i fatti, i fatti fanno la storia. Non esistono i “fatti di sangue” perché la storia di ognuno è emorragia di vita.
C’è il sangue. Esso imprime il fenotipo all’anima. E Donna Amalia, la capostipite della discendenza protagonista di questo volume, è nutrice proprio in virtù di quel sangue di bue cui si abbeverava per sfuggire all’anemia. Una discendenza di maffia, che fu maffia di pampini, ebbe a generare Donna Amalia. E Ciro che con Nonna Amalia giocò l’ultima scopa, sul letto di morte, ancora non sapeva che solo a carte ti spetta di esser di mano. Nella vita no. Sei sempre sotto. Con solo quel giro di carte che la sorte ti ha dato. Puoi cambiare posto al tavolo, puoi saltare un giro, ma quando arriva il tuo turno, quando sei alla fine del mazzo, non ti rimane che una di quelle, poche, carte. Da giocare.
La mamma di Ciro cambiò quartiere, gli nascose della famiglia la storia. E lui come tanti, tanti figli di maffia che in quel mondo non riescono a stare perché la loro sensibilità li porta lontano, destinati dalla diversità a più nobili fini, visse la vita dissociato. Eternamente dimidiato, nel conflitto terribile che ti scava l’anima. Vinto tra l’amore per la vita e quello per i propri natali. Perché l’anima si educa ma senza sangue non può stare.
Fu a quel tempo, quando l’adolescenza connota il carattere e colora lo sguardo con la delicatezza delle inclinazioni che ciascuno sviluppa, che Francesco Palmieri lo ebbe a incontrare. E fu amicizia.
Perché lui Francesco non solo i vivi ma anche i morti sa ascoltare.
E c’è l’omertà. La lingua che pochi conoscono e della cui grammatica troppi hanno fatto luogo comune. E che invece, assai spesso, permette di raccontare quelle storie dove l’amicizia ha fecondato quell’ovulo che ha scelto il confine come propria placenta. Il confine tra il bene e il male. Il confine tra quelli che Dovlatov chiamerebbe nâsi e tutti gli altri. Il confine tra la vita e la morte.
Come la storia di Ciro. Di lui che per tutta una vita ha cercato, quasi la sua vita fosse un canto orfico, un nuovo asse dei tempi, un universo parallelo riempito da nuovi interessi, nuove relazioni, fatti che non avessero a che fare. Tutto nuovo, tutto pulito, tutto diverso. Distante da quei fatti, da quelle relazioni, da quel mondo imbrattato dal sangue che fiottava, sì fiottava, caldo dai vitelli sgozzati al macello.
Quel sangue matrice che cerca eternamente le copie che ha generato per riunirsi col sangue di esse. Fu così che la storia di Ciro volse alla fine. Sotto i colpi di una mano sicaria, armata dal fato, che congiunse la copia alla matrice. Il fatto di sangue alla storia.

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