Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali
In uno dei suoi primi atti politici dopo l’investitura quale Segretario generale del Partito comunista cinese (Pcc) da parte del XVIII Congresso del partito, lo scorso gennaio Xi Jinping, davanti alla platea dei membri della Commissione centrale per l’Ispezione della Disciplina, lanciò una vera e propria crociata contro la corruzione all’interno degli apparati del partito e dello stato.
Promise una caccia alle “tigri” e alle “mosche”, intendendo riferirsi da un lato alle attività illegali dei funzionari di alto rango, dall’altro a tutti quei casi di malaffare e corruzione che, soprattutto a livello locale, hanno un impatto diretto sulla popolazione.
La mossa di Xi Jinping è un tentativo di restituire vitalità e credibilità all’azione del partito, scosso nel 2012 dalle ripetute notizie di stampa nazionale e internazionale sulle ingenti fortune ammassate dai più importanti leader cinesi e dalle loro famiglie.
Le recenti inchieste che hanno coinvolto alcuni esponenti del partito per non meglio precisate “serie violazioni della disciplina interna” – eufemismo per definire pratiche corruttive – consentono di leggere con maggiore chiarezza anche il processo che per cinque giorni, a fine agosto, è andato in scena contro Bo Xilai, l’ex segretario di partito di Chongqing, da tempo caduto in disgrazia.
Feuilleton cinese
In un’aula giudiziaria a Jinan, la capitale della provincia dello Shandong, Bo Xilai si è visto contestare l’accusa di avere accettato tangenti per un valore complessivo di 3,4 milioni di dollari Usa, di essersi indebitamente appropriato di denaro pubblico per un valore di circa 820.000 dollari, e di avere abusato del potere licenziando il capo della polizia di Chongqing, reo di avere scoperto la responsabilità della moglie di Bo, Gu Kailai, nell’assassinio di un uomo d’affari britannico (per questo reato Gu Kailai è già stata condannata a morte, con probabile conversione della pena in ergastolo).
Era dai tempi dell’indagine giudiziaria contro la banda dei quattro che un processo a un top leader di partito (Bo Xilai era candidato ad assurgere al Comitato permanente del Politburo) non godeva di tanta pubblicità: la corte infatti, utilizzando il sito di microblogging weibo, ha diffuso la maggior parte dei verbali del procedimento, permettendo ai cittadini cinesi di ottenere ulteriori elementi a sostegno delle proprie convinzioni riguardo al controverso personaggio.
Molti cinesi continuano ad ammirare Bo Xilai per le politiche populiste attuate a Chongqing, e ritengono che egli non sia più corrotto degli altri funzionari di partito con simili incarichi: con insolita (per un aula di tribunale cinese) sfrontatezza Bo ha respinto ogni addebito, addossando tutte le responsabilità alla moglie e a Wang, e rivelando un legame sentimentale tra i due.
In una crescente atmosfera da feuilleton (che include il racconto delle spese folli del figlio venticinquenne di Bo), non sorprende che nulla sia trapelato invece del feroce dibattito tra le diverse anime del partito che sono alla base dell’esautoramento di Bo e della sua condanna all’ergastolo.
La linea ufficiale del regime – secondo cui il processo dimostra che nessuno è al di sopra della legge e che la promessa di Xi Jinping trova riscontro nei fatti – non è credibile dal momento che il sistema giudiziario cinese non è indipendente dal potere esecutivo e dal partito. L’uso politico della giustizia pare essere confermato dall’identità delle nuove “tigri” prese di mira dalla campagna anti-corruzione.
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Giuseppe Gabusi, docente di International political economy e political economy dell’Asia orientale, Università di Torino; head of research, T.wai.