Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali
A partire dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, gli equilibri di potenza a livello globale avevano evidentemente, e necessariamente, registrato una radicale modifica.
Il passaggio da un assetto bipolare (contestato debolmente e spesso velleitariamente dal Movimento dei non allineati, da Nasser a Nehru passando per Tito) ad un assetto sostanzialmente unipolare si attuava sia sul terreno dei rapporti bilaterali che ai vari livelli di aggregazione multilaterale, regionale (ad esempio la Nato) ovvero globale (le Nazioni Unite).
L’allargamento della Nato e la sua proiezione “out of area” – “out of area or out of business” era infatti la pragmatica dottrina coniata dalla metà degli anni ’90 – si manifestavano così nella crisi kosovara del 1998-99 e nella campagna afgana, dove tuttavia l’operazione Isaf si affiancava soltanto in un secondo momento a quella statunitense “Enduring freedom” per l’allergia di Washington nei confronti dei vischiosi meccanismi di un comando congiunto.
Geometrie alternative
La guerra irachena del 2003 faceva tuttavia registrare una pesante battuta d’arresto e una frattura all’interno della Nato e fra i suoi stessi membri europei (la “nuova” e la “vecchia” Europa nella caustica battuta di Donald Rumsfeld).
Nella transizione dalle “Bush wars”, con i loro pesanti strascichi da Kabul a Bagdad, alla confusione dell’era di Barack Obama, il ruolo strumentale della Nato si riproponeva nel 2011 in Libia, in verità sulla scia dell’attivismo francese e britannico – umiliato a Suez nel 1956 da Dwight Eisenhower – che nelle settimane scorse si è nuovamente manifestato nella crisi siriana.
L’agitata “supplenza” di Parigi (e Londra) alle esitazioni di Washington meriterebbe una trattazione a parte: in questa sede basti ricordare che gli interessi sia concreti che storici di Parigi nel Nord Africa e nel Levante siro-libanese trovano la loro “rappresentazione” nell’inesauribile serbatoio di valori “universali” e nelle loro declinazioni (ingerenza umanitaria, diritto di protezione).
L’evocazione dei valori universali conduce direttamente alla debolezza sistemica delle Nazioni Unite. In Scontro di civiltà, Samuel Huntington ammoniva magistralmente che “quello che per l’Occidente è universalismo dagli altri è percepito come imperialismo”.
L’illusione unipolare di Bill Clinton e George W. Bush aveva condotto all’aggiramento dei veti russo e cinese nel Consiglio di sicurezza, Cds, attraverso le coalizioni di volenterosi nei casi del Kosovo 1999, dell’Iraq 2003 e della Libia 2011, anche attraverso interpretazioni unilaterali e distorte di precedenti risoluzioni interlocutorie e procedurali dello stesso Cds che sostituivano le nozioni di legalità e sovranità con quella di una imprecisata “legittimità”.
In parallelo alle pragmatiche coalizioni di volenterosi veniva esplorata, da Madeleine Albright prima e da Condoleezza Rice poi, l’ipotesi di una comunità di democrazie alternativa alle Nazioni Unite ed ai meccanismi di voto (e di veto) in seno al Cds.
Su queste operazioni grava, da circa 25 anni, il teorema del superamento dei Trattati di Westfalia del 1648 e del loro assioma cuius regio, eius religio ossia un processo di affiancamento al diritto internazionale positivo, pattizio e consuetudinario, centrato sulla sovranità degli Stati, del diritto naturale e dei suoi valori, in se lodevoli ma purtroppo opachi, la cui credibilità è inficiata da un doppi standard evidenti.
Basti pensare al rapporto tra l’infausta Primavera Araba e le petromonarchie del Golfo, ovvero tra queste ultime e le radici lontane della crisi afghana e di quella irachena a partire dall’inizio degli anni ‘80 nello scontro tra l’Occidente e, rispettivamente, l’Unione Sovietica e l’Iran khomeinista.
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Sergio Vento è Ambasciatore d’Italia.