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La maggioranza corsara di Enrico Letta

La maggioranza corsara (Pd + M5S + Sel + Scelta Civica, il cui rappresentante è un radicale vagante, dapprima rivendicatore di diritti con Pannella; indi parafascista giustizialista con Fini; infine giustizialista raffermato con Monti) emersa il 4 ottobre nella giunta delle elezioni al senato, contrasta vistosamente con quella ratificata, sempre a Palazzo Madama oltre che a Montecitorio, con la fiducia concessa due giorni prima al governo Letta (Pd + Pdl, compresa Forza Italia + Scelta Civica + Udc + altri).

I governativi hanno esultato il 2 ottobre neppure si fosse verificata – come pure si è detto con un propagandismo eccessivo – una “svolta storica”. Gli stessi ultra governativi quasi non hanno fiatato il 4: certamente sarebbe stato assurdo fare riesplodere polemiche politiche dinanzi alla strage di profughi al largo di Lampedusa. Ma Casson, illustre componente della giunta senatoriale (che il Capo dello Stato Francesco Cossiga chiamava “giudice ragazzino”, non alludendo alla sua età) si è precipitato ad avvertire che il Pd ha l’obbligo di reiterare la condanna a morte di Berlusconi nell’aula del senato; venendo seguito a ruota dal segretario del Pd, affrettatosi a rassicurare i dubbiosi che il suo partito si adeguerà a quel voto anticostituzionale contro il capo dell’opposizione e discriminerà fra i gruppi del partito avversario, come lo stesso Letta, contestato da Alfano, auspica accada.

Come si faccia a ritenere che il secondo voto non si scontri col primo e non avrà influenza sul futuro prossimo del governo, è esercitazione da causidici, non da politici. A meno che non si vogliano imitare i metodi in uso nel XVI secolo in Inghilterra. Dove la regina Elisabetta I la Vergine (detta così con palese ironia) nominava sir il corsaro Drake che portava in dono alla corona di Londra qualche nuova colonia, ma faceva spietatamente eseguire la pena della impiccagione a quei pirati a lei devoti che lasciavano vivi i testimoni delle loro scorrerie ed erano presi con le mani nel sacco dalle corvette francesi, olandesi o spagnole controllanti la legalità dei traffici marittimi dell’Atlantico e del Pacifico.

Una certa allegrosità spensierata sembra circolare nella maggioranza rifiduciata, ma che rimane ancora più “strana” della precedente subbugliosità che ha messo a rumore assordante il campo di un centro-destra in verità diviso non dalle recenti lotte fra “colombe” e “falchi”, bensì da demarcazioni che precedono abbondantemente lo stesso voto di febbraio e si ricollegano alle dissidenze che condussero alla caduta del V governo Berlusconi. Occhieggiando qua e là nelle varie regioni italiane, si intravedono infatti nel centro-destra divergenze che già esistevano nel 2001, nel 2008, nel 2011. Quelle divisioni sono sempre state poco motivate, risultando quindi incomprensibili allo stesso popolo berlusconiano. Ma, andando al nocciolo, concernevano anzitutto lo scarto tra il cerchio magico del capo carismatico (composto specie da ex socialisti, ex comunisti, ex missini, ex conservatori) e la periferia mobilitabile, costituita in gran maggioranza da ex democristiani, cattolici organizzati, liberali, riformisti senza aggettivazioni.

La polemica vera è, però, nata attorno a esigenze generazionali. Molti quadri centrali si sono preoccupati del loro avvenire con scarse prospettive di valorizzazione; venendo, quindi, quasi obbligati a spingersi verso forme di differenziazione che, al massimo, giungevano a proclamarsi diversamente berlusconiani o cattolici della moralità più integra, sino a rendersi moralisti e strumenti passivi dei giustizialisti, prevalenti nel campo avverso. Di qui la speranza (o i timori) di un rimescolamento generale della geografia politica nazionale. Che si condensa nella previsione schematica di una presunta ridemocristianizzazione dei vari clan oggi sparsi tanto a destra che a sinistra, che al centro. La verità è che né nella classe generale oggi alla guida del governo, né nel centro-destra, né nella sinistra conservatrice e forcaiola (lealista o corsara) si vuole davvero “morire democristiani”.

Nessuno, ovviamente, intende morire (politicamente) anzitempo. Molti aspirano a sopravvivere comunque. Pochi hanno coscienza che una fiducia sulla stabilità strappata coi ricatti e colla sciabola fra i denti, anche se numericamente è larga e rassicura i mercati, non risolve quasi nessuno dei problemi di decrescita nazionale (occupazione, economia, marginalizzazione delle leve giovanili, povertà raggiunta da ceti considerati medi), rimasti allarmanti anche dopo la rifiducia. Soprattutto, non c’è certezza alcuna su come dovrà essere modellato il sistema istituzionale e costituzionale, fatta salva la speranza che le proposte della commissione dei saggi di Napolitano possano trovare udienza nei gruppi parlamentari: della maggioranza legale, non di quella corsara. Giacché quest’ultima ha, piuttosto, costituzionalizzato il principio della illegalità nella legalità, il contrario di uno stato di diritto.

 



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