L’Italia ha contribuito, con gli studi di Gaetano Mosca e di altri celebri studiosi, a sviscerare il concetto di élite ma anche ad alimentare il copioso filone della pubblicistica dietrologica: chi governa gli Stati? Chi influenza i destini delle masse? Chi gestisce vero potere? Autentico prisma attraverso cui guardare al mondo, la categoria di “classe dirigente” e il suo alter dietrologico del “salotto buono” hanno attecchito con forza nel dibattito quotidiano. C’è dell’altro: questa endiadi si è adattata ai diversi periodi storici e alle mutazioni che hanno interessato in profondità la nostra società. Come il trapasso da monarchia a repubblica – ormai storia – e la transizione dalla Guerra Fredda ad un mondo dove le ideologie di un tempo si sono meticciate con forme produttive nuove.
Nuove aristocrazie
Della società italiana osservata dal microscopio di Gaetano Mosca oggi rimane poco, le corti reali e i patriziati hanno fatto spazio a aristocrazie venali con spiccate tendenze tribali. Prima di decretare la fine dei grandi vecchia della nostra scena politica ed economica, e in attesa di capire quale sarà il nuovo mosaico disegnato dalle numerose partite societarie in movimento – Telecom, Ansaldo, Avio, ecc… – vale la pena soffermarsi su alcuni dei protagonisti del “prima” senza azzardare profezie sul “dopo”. Per lunghi anni le aristocrazie venali sono state le principali forze capaci di creare intese con la politica o, non di rado, di cooptare i politici più promettenti. Una tendenza, quella alla prossimità con il palazzo, che si spiega con la capacità di estrarre rendite dalla politica e dal Leviatano statale. Già, la mano pubblica. Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica nonché costituzionalista e profondo conoscitore dell’Italia, ebbe a dire che questa era il maggior Paese “a socialismo reale” fuori dal mondo dichiaratamente comunista. La formula, al di là del gusto per il paradosso che contribuì a rendere celebre Cossiga, rivela il ruolo forte dello Stato nell’economia del nostro Paese.
È importante, poi, richiamare un principio molto semplice: quanto maggiore è il ruolo pubblico nell’economia, tanto più elevato è l’interesse a interagire con lo Stato – possibilmente in maniera efficace – da parte di chi Stato non è. Tra gli studiosi, non manca chi parte dagli interventi pubblici per ritrovarne le cause nell’azione di gruppi di pressione. È quanto fatto dalla teoria dei gruppi di pressione, uno dei filoni che attraversa la storiografia sulla spesa pubblica italiana dall’Unità d’Italia ai primi anni ottanta del secolo scorso, e che mette in stretta correlazione da un lato i gruppi di pressione e dall’altro la dinamica del disavanzo pubblico italiano. L’idea chiave di tale teoria è che dell’enorme estensione dell’elettorato attivo nel secondo dopoguerra abbiano beneficiato anche gruppi dell’opposizione. Dagli anni settanta, tassi minori di crescita, scarsa volontà del ceto politico di respingere le richieste di un sempre maggior numero di gruppi di pressione hanno poi portato all’esplosione del disavanzo pubblico negli anni ottanta. Solo dal 1993 il disavanzo pubblico italiano ha iniziato a diminuire, per poi tornare a crescere con il nuovo millennio. Si aggiunga che, tipicamente, ogni crisi economica ha visto interventi forti dello Stato, e si avrà ben chiaro l’intreccio di decenni di storia patria.
D’altra parte nel nostro Paese lo Stato è policy maker, arbitro e giocatore al tempo stesso. Come regolatore, definisce e fa rispettare le regole del gioco. Come giocatore, fa valere il peso delle proprie partecipazioni societarie: Eni, Finmeccanica, Poste, Trenitalia, Fincantieri, Enel eccetera. Non c’è da stupirsi dunque se, stando a un rapporto dell’ufficio studi di Mediobanca del luglio 2011, l’Italia incassava complessivamente più dividendi della Cina dalle società controllate, come Eni, Enel e Finmeccanica. Per dirla con le stesse parole usate dai tecnici di Mediobanca: «Molto Stato, meno globalizzazione». Più in dettaglio, l’Italia si piazzava al quarto posto con 1.198 milioni di remunerazione, davanti alla Cina che ne incassava 1.149. C’è dell’altro: oltre che regolatore e giocatore di mercato, lo Stato riveste anche il ruolo cruciale di grande compratore.
La geografia delle privatizzazioni
Naturale, dunque che il tormentone dello Stato e dei suoi gioielli sia un tasto molto sensibile. È bastata ad esempio una non-smentita del Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni in una recente trasferta in Russia a scatenare un putiferio. I giornali si sono subito precipitati a spiegare che ENI e ENEL e le altre partecipate di Stato sono (parzialmente) in vendita o comunque possono essere “collateralizzate” a garanzia di emissioni di debito o utilizzate in altri schemi. Poco importa che gli asset in mano allo Stato centrale siano poca cosa rispetto alla massa eterogenea di beni in mano a regioni e comuni, come segnalato in maniera tanto esplicita quanto asciutta in un seminario del Tesoro sulle privatizzazioni dell’autunno 2011. Il riflesso pavloviano segnala peraltro quanto sia ancora profonda la suggestione esercitata sulla memoria collettiva dalle privatizzazioni degli anni ’90, con il sapore salato del mitologico Britannia, lo yacht teatro delle presunte strategie spartitorie che avrebbero di lì a poco cambiato la faccia del sistema economico italiano. Tutti aspettano un “Britannia 2” anche oggi, ma non ci sarà per la semplice ragione che è rimasto poco grasso che cola, e quel poco che c’è va stanato comune per comune, regione per regione.
Le fondazioni: vallo di Adriano o linea del Piave?
E’ forse per una nemesi storica che oggi assistiamo agli sforzi – per il vero non troppo convinti – di delle stesse aristocrazie venali che hanno fatto fortuna all’ombra dello Stato. Con la crisi dell’Eurozona sta infatti crepandosi l’ultima grande barriera eretta a protezione dei palazzi romani, la poderosa architettura banco-statale che da venti anni a questa parte segrega ermeticamente la massa in crescita del nostro debito sovrano garantendone l’assorbimento da parte delle principali banche domestiche, a loro volta controllate dalle fondazioni bancarie che surrogano la ricerca del consenso politico sul territorio. Le fondazioni italiane hanno infatti svolto una funzione di cerniera in una vera e propria architettura circolare, che vede il debito pubblico ampiamente sostenuto da banche domestiche, a loro volta controllate dalle fondazioni. Se a questo si aggiunge il fatto che il finanziamento delle aziende passa essenzialmente dal sistema creditizio anziché dalle borse, è evidente che chi controlla le banche controlla l’intero Paese. Un versante che meriterebbe maggiore attenzione è invece quello delle fondazioni bancarie, oggetto di un monito insolitamente duro e diretto da parte del Governatore Bankitalia, Ignazio Visco, in occasione dell’assemblea annuale dell’ABI.
Intervenendo davanti alla folta platea bancaria, Visco ha richiamato i meriti passati delle fondazioni, per poi esortarle senza mezzi termini a diversificare i propri investimenti, allentando la presa sulle banche e facendo spazio a nuovi soci. Un segnale interpretato da molti come un preludio a una campagna di ricapitalizzazioni bancarie, in cui le fondazioni – colpite duramente dalla crisi – non saranno probabilmente in grado di fare la loro parte e dovranno fare spazio a nuovi soci.
(la versione integrale dell’analisi di Francesco Galietti comparirà sul prossimo numero della rivista Formiche)