Il paradosso dell’eurozona è di avere i conti esteri sostanzialmente in buona salute e i conti interni sballati.
Da un parte abbiamo un posizione netta degli investimenti che migliora la sua posizione debitoria e i saldi di conto corrente positivi già da due anni. Dall’altra abbiamo gli sbilanci dei saldi Target 2, che seppure migliorati dall’inizio della crisi, mostrano ancora sostanziali squilibri fra i saldi creditori dei paesi forti, Germania in testa, e quelli debitori dei PIIGS.
Perché succede questo?
E’ una di quelle domanda da un milione di euro.
Prima di provare a delineare una risposta, tuttavia, è utile dare un’occhiata agli ultimi dati diffusi dalla Bce.
A fine 2012 la NIIP (net international investment position) dell’area ha registrato debiti netti per 1,3 trilioni di euro, il 13% del Pil dell’eurozona, in calo di 193 miliardi rispetto al dato del 2011, quando il debiti neti ammontavano al 15,4% del Pil. Per la cronaca, tale risultato è migliore del dato registrato a fine 2007, quindi prima della crisi, quando i debiti netti erano al 14,2% del Pil. L’anno dopo sprofondarono al 17,3%.
Prima di proseguire è utile ricordare cosa sia la NIIP, visto che non tutti lo sanno. In sostanza questo indicatore misura la differenza algebrica fra il valore degli asset esteri di un paese e i suoi debiti (ossia il valore degli asset detenuti da paesi esteri sul suo territorio). Giova sottolinare che la NIIP, che in sostanza dà la misura del debito estero di un paese (di un’area nel caso dell’eurozona), include sia il debito pubblico che quello privato.
Questa definizione da sola dice molto, ma non dice tutto. Per capire se il mio debito estero è fonte di instabilità per un paese, devo andare a vedere il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Una posizione netta negativa sull’estero per gli investimenti, infatti, vedrà un afflusso sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti (ingresso di capitali, segno più, quindi debito) e una voce negativa alla voce redditi del conto corrente, visto che ai debiti di solito corrisponde una passività, ossia il pagamento di un interesse ai creditori.
Nell’eurozona, tuttavia, il saldo del conto corrente è positivo.
Nel secondo quarto del 2013, infatti, il saldo cumulato per i quattro trimestri precedenti mostra un surplus di 182,8 miliardi di euro, pari all’1,9% del Pil, in crescita rispetto allo 0,6% (56 miliardi) registrato nell’anno precedente. Tale miglioramento è dovuto all’aumento delle esportazioni di beni (da 44,8 miliardi a 147,6 miliardi di euro), all’aumento della voce redditi (da 41,3 miliardi a 58,4), ossia quella che misura la redditività degli investimenti diretti o di portafoglio dei residenti all’estero, e dei servizi (da 83,8 miliardi a 93,8).
Cosa significa questo?
Che attualmente il debito estero dell’eurozona non è una fonte di instabilità, come dimostrano gli afflussi di capitali sul conto finanziario, e che, malgrado tali afflussi, si sta riducendo.
Ci sono altre cose utili che vale la pena sapere. La prima è che il 20% degli investimenti diretti della zona euro all’estero, che totalizzano 5,9 trilioni, sono negli Stati Uniti e altrettanto nel Regno Unito che ricambiano con il investimenti diretti nell’eurozona pari al 26% (Gli Usa) e al 23% (UK) del loro totale. Un altro 10% si è allocato in Svizzera e solo il 6% in paesi europei non aderenti all’euro. Gli investimenti diretti di non residenti nella zona euro, invece, ammontano complessivamente a 4,4 trilioni.
Gli investimenti di portafoglio degli euroresidenti, che valgono 5,3 trilioni, pesano invece il 31% negli Stati Uniti e il 20% in UK. Una differenza che riflette evidentemente il ruolo di valuta di riserva del dollaro.
Un’altra cosa interessante è che l’aumento di valore degli asset europei detenuti dall’estero, azioni e obbligazioni, nel 2012, ha pesato ben 400 miliardi. Tale aumento di valore corrisponde – di fatto – ad un aumento del debito sottostante a tali obbligazioni,mentre l’andamento del tasso di cambio (in rialzo rispetto al dollari de 2% e rispetto allo yen del 13%) ha pesato solo cinque miliardi in più. In pratica significa che l’eurozona, nel 2012, è stato il paradiso degli investimenti di portafoglio. E infatti, a fine 2012, il totale degli asset di portafoglio detenuti dall’estero è arrivato a quota 8,4 trilioni di euro.
Quindi i paesi esteri hanno investimenti diretti nell’eurozona per 4,4 trilioni e investimenti di portafoglio per 8,4, quasi il doppio.
C’è ancora qualcuno che dubita della supremazia della finanza sull’economia reale?
L’ultima cosa che è utile sapere è che i milglioramenti del saldo di conto corrente, lato merci, sono dovuti principalmente alla diminuizione dei deficit verso gli altri paesi dell’Ue con i quali l’eurozona commercia, passato dal 124,3 miliardi a 54,6, poi verso il Giappone (da 9,6 miliardi a 0,8) e da un aumento del surplus nei confronti del Regno Unito (da 47,1 mld a 58) e degli Stati Uniti (da 68 miliardi a 76,5).
Ciò mostra, scrive la Bce nella sua nota di presentazione, che “i paesi dell’Ue non aderenti all’euro, escluso il Regno Unito, rappresentano il partner primario commerciali dell’eurozona, pesando il 16% del totale dei beni e servizi esportati, seguiti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti”.
L’Asia, insomma, è una promessa più che una realtà.
Tutto ciò permette alcune conclusioni.
1) L’eurozona ha corretto via austerità i conti con l’estero, ma al contempo si caratterizza sempre più come una piazza finanziaria. Dall’estero vengono a comprare bond e azioni in Europa perché assicurano buoni rendimenti grazie alla crisi degli spread, ossia ciò che ha provocato l’austerità;
2) I principali partner della zona euro sono altri europei, inglesi compresi, e poi gli americani.
Ora il fatto è che malgrado il sostanziale equilibrio dei conti esteri, l’eurozona è squilibrata al suo interno, dove creditori e debitori non riescono più ad incontrarsi malgrado l’appartenenza a un’area comune.
Vale la pena ricordare che ad agosto 2012 (dato Bankitalia) la posizione debitoria complessiva registrata dai saldi Target 2 di Grecia, Spagna, Irlanda, Italia e Portogallo verso la Bce aveva toccato i 1.000 miliardi, a fronte di crediti per 940 da parte di Germania, Finlandia e Paesi Bassi. L’austerità ha solo leggermente migliorato questo stato di cose. La ripresa della fiducia nei confronti dell’euro, infatti, ha fatto tornare il capitale verso i PIIGS. Denari che sono venuti in parte dagli altri paesi dell’eurozona e in parte dall’estero, come mostra l’andamento degli investimenti di portafoglio esteri nell’eurozona.
Stando così le cose dovrebbe essere chiaro a tutti che sarebbe molto più razionale, anche ai fini dell’equilibrio dei conti esteri dell’eurozona, che fossero i paesi creditori dell’area a investire i loro surplus nei paesi debitori. Ciò consentirebbe di far ripartire il commercio interno e sviluppare ulteriormente le relazioni con gli altri partner non eurodotati, che però sono il nostro principale partner commerciale.
Il problema è che manca lo strumento capace di riattivare questo circuito virtuoso.
La buona notizia è che già in passato, nel secondo dopoguerra, l’Europa si è trovata in questa situazione e ne uscì con un sistema di clearing centralizzato che in pochi anni consentì di far ripartire gli scambi e le economie disastrate di quel tempo.
L’Europa conobbe la sua età dell’oro.
Lo strumento si chiamava Unione europea dei pagamenti.
L’abbiamo dimenticata.
Oltre che con l’estero, l’eurozona dovrebbe imparare a regolare i conti con se stessa.
A partire dalla sua storia