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L’industria italiana, sviluppo possibile e sindrome di Proust

“Un’idea innovativa è come Peter Pan: per volare alto ha bisogno di un pensiero felice”
Massimo Marchiori

 

Le serie storiche della crisi parlano chiaramente: siamo sempre alla ricerca del tempo perduto.

D’altra parte, fatta eccezione per pochi paesi densi di risorse naturali, le economie di successo degli ultimi anni devono la loro crescita ad una rapida industrializzazione. Tutti concordano: Corea del Sud, Singapore, Taiwan e Cina sono stati eccezionalmente bravi a spostare il lavoro dalla campagna alla produzione industriale organizzata e, a seguire, a prodotti/servizi a più alta densità di conoscenza. Era già successo in precedenza a Stati Uniti, Germania o alla stessa Italia: il nostro nord-est ne rappresenta l’esempio più recente e significativo.

Nella fase attuale, uno sviluppo di successo a lungo termine richiederebbe dunque uno sforzo di industrializzazione accompagnato dal costante accumulo di capitale intellettuale e competenze istituzionali utili a sostenere una crescita. Senza la spinta dell’industrializzazione, il decollo economico diventa estremamente difficile. Senza investimenti prolungati nel capitale intellettuale, la crescita non solo è molto più lenta ma è condannata ad esaurirsi: è l’ineluttabile orizzonte di equilibrio del capitalismo intellettuale, il capitalismo delle reti e del futuro.

E’ qui che emerge la malinconia sociale e culturale che ci caratterizza, la malinconia di un Paese contraddistinto dalla presenza di ceti ristretti, dalla solidarietà di piccoli gruppi e da forti e diffusi meccanismi di cooptazione e obbedienza (formazione delle liste elettorali, azioni di lobby, patti di sindacato, tanto per fare qualche esempio). Non è quindi un caso che l’Italia sia un paese dalla mobilità sociale bloccata. Viviamo una società caratterizzata da meccanismi di selezione ancora basati sul censo, sull’appartenenza e sull’avocazione.

Eppure, dopo la Germania, siamo ancora il Paese con la più importante industria manifatturiera d’Europa. Pensiamo che sia possibile oggi salvarla tutta, cosi com’è, dalla agguerrita ed inarrestabile concorrenza asiatica? Siamo ancora alla ricerca del tempo perduto? O dobbiamo accelerare il cambiamento verso il capitalismo intellettuale, verso tecnologie di rete ed investimenti in istruzione, formazione e ricerca in grado di favorire lo sviluppo di una industria di servizi a rete ad alto contenuto di lavoro cognitivo capace di dare vere prospettive ed un ruolo al nostro Paese?

Dobbiamo andare oltre il tempo perduto. Finora siamo stati titubanti anche per l’orgoglio di aver costruito un Paese industriale di piccole e medie imprese diffuse che hanno espresso occupazione e creatività, pur senza avere molta ricerca, molto management, grandi università o grandi capitali. Un passato straordinario, certo. Ma ora la situazione è cambiata e sarà bene prenderne subito atto.

(continua)


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