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Lo spirito tedesco dell’export italiano

Quando tutto sembra cadere a pezzi è buona prassi igienica volgere lo sguardo verso il buono che ancora c’è nel nostro Paese e che sembra miracolosamente resistere allo sfacelo della nostra vita pubblica.

Il fatto che tali riflessioni scaturiscano dall’ultimo staff report del Fmi sull’Italia, per nulla tenero nei nostri confronti, dovrebbe farci riflettere e convincerci di una semplice ed evidente circostanza: siamo ancora un grande Paese.

La stabilità italiana, per fortuna, resiste persino a questa classe politica e a una palese inadeguatezza di classe dirigente.

Il capitolo del rapporto che vale la lettura si intitola “The Italian Competitiveness Puzzle” e spiega bene, già dal titolo, quanto l’Italia sia un paese strano, capace di coniugare senza imbarazzi grandi punti di forza e altrettante debolezze. E pure se abbiamo una naturale predisposizione a lamentarci, possiamo pure contare su straordinarie (e sconosciute) riserve di ricchezza, finanziarie e produttive, che purtroppo di rado trovano spazio nelle cronache, malate di chiacchiericcio e piagnonismo.

Il puzzle della nostra competitività si compone di diversi pezzi, come è giusto che sia. Ma giova rappresentarne da subito il quadro d’insieme che credo sia più eloquente di qualsiasi analisi. Nella top ten dell’export dei paesi manufatturieri per valore aggiunto (dato ONU 2010), l’Italia conserva saldamente il sesto posto. Lo stesso che aveva nel 2000.

Non ci sarebbe nulla di strano se intanto non fosse cambiato il mondo.

Nel 2000 l’America era la prima della lista. Nel 2010 la prima è stata la Cina, con gli Usa in seconda posizione. Il Giappone, che era secondo, è diventato terzo. La Gran Bretagna, che era quinta, è diventata decima. La Francia, che era settima è scivolata all’ottavo.

Solo la Germania, come noi, ha conservato la sua posizione al quarto posto.

Conclusione: solo noi e i tedeschi abbiamo retto l’urto dell’arrivo delle economie emergenti iniziato agli albori del XXI secolo.

C’è molto dello spirito tedesco, nell’export italiano.

Per questo il Fondo apre il suo rapporto con una constatazione che sembra l’esatto contrario del mainstream economico del nostro tempo: in Italia c’è stata una perdita di competitività senza un collasso delle esportazioni.

E questa è la prima tessera del puzzle.

Negli ultimi vent’anni, scrive il Fondo, “un calo costante della crescita nel totale fattore di produttività (TFP) e il conseguente aumento del costo unitario del lavoro rispetto ai concorrenti europei hanno sollevato ripetute preoccupazioni circa la competitività degli esportatori italiani”. E tuttavia, “l’export italiano ha tenuto relativamente bene”.

“Più di recente – sottolinea – la vivacità delle esportazioni a fronte di una depressione globale della domanda evidenzia la continua capacità di adattamento e la resilienza delle Imprese commerciali italiane”.

Qualcosa di buono, quindi, c’è pure da noi.

in particolare, siamo leader nel tessile, nell’abbigliamento e nella pelletteria, e siamo secondi (dopo la Germania) per i macchinari non elettronici e la manifattura.

Per capire le ragioni di questo mezzo miracolo bisogna fare un ragionamento più generale. L’andamento italiano della produttività replica, pur amplificandolo il trend che ha iniziato a svilupparsi in Europa dalla metà degli anni ’90, quando l’inizio della rivoluzione dell’ICT ha arricchito il concetto stesso di competitività. Le imprese hanno iniziato a distinguersi e a distinguere fra competitività derivante dalla tecnologia, quindi dallo sviluppo di nuovi prodotti e caratterizzata da un alto contenuto di innovazione, e competitività derivante dai costi, associato all’aumento dell’efficienza e alla diminuzione dei costi del lavoro. Le imprese italiane, che dovevano fare i conti con la concorrenza delle economie emergenti, dovevano vedersela innanzitutto con questo tipo di competitività. E a quanto pare sono riuscite a resistere.

Tale successo si spiega analizzando le nostre imprese esportatrici.

Il Fondo distingue quattro tipi:

1) Industrie scienze-based, come la farmaceutica, l’elettronica o l’aviazione;

2) Industrie specializzate, dominate da piccole imprese che disegnano, sviluppano e producono prodotti di nicchia;

3) Industrie tradizionali, comeil tessile, l’alimentari, dove l’innovazone è meno rilevante

4) industrie intensive che sfruttano le economie di scala e che possono essere basate o su tecnologie pesanti, come l’industria degli autoveicoli, o sullo sfruttamento di materie prime, come la chimica o la raffinazione.

Questa tassonomia aiuta a capire l’evoluzione del nostri sistema industriale che, nota il Fondo, è un mix ben riuscito di prodotti tradizionali e industrie specializzate

Un grafico mostra tale andamento fra il 1995 e il 2011.

La prima cosa che salta all’occhio è il peso crescente delle industrie che fanno economia di scala che sfruttano le materie prime. La quota di export di queste aziende è cresciuta constantemente nel tempo e ora pesa circa il 35% nell’export totale italiano. Le industrie intensive che fanno tecnologie, invece, hanno ridotto nell’ultima metà del XXI secolo la quota di esportazioni. La somma delle due industrie, tuttavia, mostra un trend chiaramente in aumento.

Al contrario, quelle che hanno sofferto di più la globalizzazione sono le imprese tradizionali, che hanno visto diminuire di circa un terzo la loro quota di export. Sono rimasti distanti le industrie specializzate e quelle science-based.

Cosa ci dice questo grafico?

Che in pratica le imprese che hanno migliorato la competitività tecnologica, e sono riuscite a fare economie di scala, sono cresciute, e che quelle che fanno innovazione al loro interno, pure se sono piccoli produttori, hanno resistito. Nel confronto con altri paesi, scrive il Fondo, “queste industrie sembrano più simili a quelle delle Germania o degli Stati Uniti”.

Detto in altre parole, un incremento della capacità di sviluppare tecnologia e innovazione paga persino se peggiorano gli indici della competitività di costo.

Infatti il prezzo più alto l’hanno pagato le imprese tradizionali, che, non riuscendo a fare competitività tecnologica hanno subito l’andamento declinante della competitività di costo, anche a causa della “rivalutazione italiana cumulatasi sin dall’introduzione dell’euro”.

Ecco spiegato il miracolo dell’export italiano, che resiste alle innumerevoli riforme del lavoro, agli infiniti tavoli politico-sindacali e persina alla rivalutazione reale del cambio.

Vale la pena fare una piccola appendice sulla competitività di costo, perché il Fondo evidenzia alcuni dati interessanti.

Il primo è che, usando un indice riferito all’economia globale del costo unitario del lavoro (ULCs), quella italiana appare essersi deteriotata fino al 5% dal momento dell’introduzione dell’euro, mentre quella tedesca risulta essere migliorata di circa il 20% a causa dell’andamento declinante del costo del lavoro.

Secondo un altro indice il PPI-based, ossia sull’indice dei prezzi alla produzione, l’Italia risulta meno competitiva di quanto lo fosse nel 1999.

Ecco, sulla competitività di costo (leggi costi del lavoro) siamo i meno tedeschi di tutti.

Finora.

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