Come sempre, qualche numero aiuta. Nel secondo trimestre del 2013 il reddito disponibile delle famiglie italiane, al netto delle tasse ma a lordo dell’inflazione, è stato di 257 miliardi di euro. Un anno prima, nel secondo trimestre del 2012 il reddito disponibile delle famiglie italiane aveva esattamente lo stesso valore: 257 miliardi.
Quindi, in dodici mesi c’è stata una crescita zero dei valori nominali che si traduce in una perdita di potere d’acquisto di poco più di un punto percentuale se i redditi delle famiglie italiane si valutano al netto dell’inflazione. Sin qui i redditi. Vediamo i consumi.
Nel secondo trimestre del 2013 la spesa per consumi delle famiglie italiane si è cifrata in 233 miliardi di euro. Valore nominale, al lordo di inflazione. Un anno prima, nel secondo trimestre del 2012 la spesa per consumi fu di 238 miliardi di euro. Quindi, a livello trimestrale, ci sono cinque miliardi in meno di consumi oggi rispetto a un anno fa.
I cinque miliardi in meno di consumi, a parità di redditi nominali, sono cinque miliardi in più di risparmi. Al netto dell’inflazione, i consumi delle famiglie calano in un anno di tre punti percentuali, più del doppio della riduzione dei redditi nominali.
Al netto dell’inflazione, nello stesso anno i risparmi delle famiglie italiane aumentano di un quinto. Nell’arco dei quattro trimestri che hanno visto i numeri del PIL italiano attenuare la misura della flessione recessiva, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è cresciuta, passando dal 7,7 al 9,4 per cento del reddito disponibile. Un cuneo si è creato tra risparmi e redditi. È il cuneo dell’incertezza.
Ancora fino alla metà degli anni Novanta dello scorso secolo gli italiani erano noti al mondo dell’economia per essere un popolo di formiche. Poi, nell’arco di un ventennio, la propensione al risparmio delle famiglie ha intrapreso un percorso di riduzione che l’ha condotta da valori intorno ai venti punti percentuali sino ai minimi storici inferiori all’otto per cento toccati lo scorso anno.
Molti, e complessi sono i fattori che hanno determinato il cambiamento. Tra gli altri: una quantunque moderata, finanziarizzazione della nostra economia; una fallace percezione dell’ingresso nell’euro come punto di arrivo e non come trampolino per un ulteriore percorso di riforme strutturali; un modello di società sempre più concentrato sull’oggi, sulla difesa degli interessi degli “incumbents” e sul trasferimento alle più giovani generazioni dei costi del cambiamento; un’idea di stabilità alieno da un’essenziale ricerca della competitività.
Nel complesso, la riduzione strutturale della propensione al risparmio ha riflesso un progressivo accorciarsi degli orizzonti e dei traguardi collettivi. Quella “veduta corta” di cui parlava Padoa Schioppa.
Nei cinque anni che vanno dall’inizio della recessione del 2008 alla metà del 2012 la flessione ulteriore della propensione al risparmio ha rappresentato il tentativo da parte delle famiglie italiane di attenuare gli effetti del calo dei redditi correnti per un dato livello di incertezza. Il fatto che da un anno a questa parte la propensione al risparmio torni ad aumentare quando il PIL riduce invece la sua caduta è sintomatico di un aumento del tasso di insicurezza sofferto dalle famiglie italiane.
Non è forse un caso che nei quattro trimestri che terminano alla metà del 2013, mentre la flessione del PIL si riduceva di due terzi, il tasso di disoccupazione giovanile è salito in Italia di cinque punti percentuali, superando il muro del 40%, e quello totale ha doppiato i valori ante-crisi.
Le accresciute incertezze sul lavoro, sulle tasse, sul quadro politico sono tutti fattori che, ragionevolmente, incidono nell’ampliare il cuneo tra risparmi e redditi familiari e aggravano i conti della recessione.
Insieme alle ricadute della recessione, le stesse accresciute incertezze gravano sul mondo delle imprese. Il riflesso più evidente si legge nei conti degli investimenti fissi lordi, la cui ripresa stenta ad avviarsi a fronte di un calo, netto di inflazione, di oltre venticinque punti percentuali rispetto ai valori ante-crisi del 2008. L’incertezza frena gli investimenti di quelle imprese – e ce ne sono – che sono rimaste profittevoli e competitive attraverso la crisi. L’incertezza è un fattore che concorre a spiegare l’aumento di una quarantina di miliardi registrato dai depositi bancari delle società non finanziarie nei venti mesi che vanno dall’inizio del 2012 allo scorso agosto.
L’incertezza che ha indotto le imprese ad aumentare gli “holdings” di depositi è anche quella innescata dalla crisi dei pagamenti, in primis, dall’accumulo di quegli oltre 90 miliardi di debiti scaduti della Pubblica Amministrazione di cui solo recentemente è iniziato un graduale rientro.
La risalita della propensione al risparmio è cosa buona, ma solo se avviene in un contesto di crescita e in uno scenario in cui le famiglie e le imprese tornano a guardare con maggiore fiducia al futuro. Cosa diversa è un aumento della proporzione di risparmio che interviene su un conto dei redditi che continua a diminuire e in un clima di incertezza che continua ad aumentare.
Rompere la spirale dell’incertezza, almeno delle componenti endogene al quadro italiano, rappresenta una premessa necessaria per qualsivoglia ripresa. L’aumento “forzoso” della propensione al risparmio intervenuto negli ultimi quattro trimestri ha comportato minori consumi per una quindicina di miliardi di euro. È quasi un punto percentuale di PIL nominale. Un costo a cui avremmo fatto volentieri a meno.
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