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Se il calo dei salari non porta al riequilibrio

Ci hanno detto, e continuano a dirci, che uno dei fattori che determinerà il riequilibrio della squilibrata eurozona è la competitività. I paesi fragili devono mettere ordine, tramite riforme strutturali, nei loro mercati del lavoro per spingere l’export e quindi riequilibrare i propri conti con l’estero, a cominciare da quelli dei paesi forti dell’area euro.

Di conseguenza ci dicono che dobbiamo accettare, noi paesi fragili, una sostanziale correzione del nostro costo del lavoro.

E in effetti, a guardare i dati, viene fuori che questa convergenza salariale verso il basso piano piano si sta verificando.

Senonché la correzione degli squilibri esteri va al rallentatore, mentre è ormai riconosciuta la diminuizione della labor share nella distribuzione della ricchezza nazionale a favore dei profitti.

Stando così le cose capirete perché ho letto con estremo interesse uno studio redatto di recente dalla commissione Ue che si intitola “Labour costs pass-through, profits and rebalancing in vulnerable Member States” che ha il merito di analizzare la questione da un punto di vista micro emacro economico.

Mi armo di pazienza e comincio a leggerlo.

Scopro che “i recenti aggiustamenti dei saldi di conto correnti degli stati membri vulnerabili (Cipro, Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo, Slovenia e ogni tanto Italia) mostrano che il rebalacing è in atto. Il conto corrente aggregato di questi paesi, considerati come un insieme, ha raggiunto il surplus nel 2012″.

Senonché, l’aggiustamento, finora, “è risultato da un mix fra importazioni più basse ed esportazioni più alte”. E tuttavia la Commissione rileva che solo in parte il calo dei salari si è trasferito sul livello dei prezzi delle esportazioni che, di conseguenza, sono rimasti più o meno stabili. Finora il calo dei salari sembra sia andato più a vantaggio dei profitti “senza dare spinta all’export”.

Se le cose stanno così, significa che mentre il calo dei salari ha un chiaro effetto sulle importazioni, che si riducono a causa del minor potere d’acquisto, l’aumento delle esportazioni pare dipenda più dall’aumento della domanda estera, piuttosto che dalla convenienza a comprare prodotti “svalutati” dal costo più competitivo.

La commissione tuttavia fa un passo in avanti e rileva che un trasferimento incompleto del calo dei salari sui prezzi “è in parte una naturale conseguenza del processo di aggiustamento”.

Conclusione: dobbiamo starci e basta. Ma vale la pena?

Guardiamo i dati.

Il grafico del costo unitario del lavoro nell’eurozona dal 2000 al 2012 mostra che il costo del lavoro unitario (ULC) era profondamento squilibrato fra i idiversi paesi, sia nel confronto con la Germania, che con la stessa media euro. Ma adesso anche questo processo di rebalacing è in corso.

“In particolare – scrive – Grecia, Portogallo e Irlanda hanno subito la riduzione più significativa del costo del lavoro, oltre ad aver aumentato la produttività (che riflette il calo dell’occupazione), mentre il costo del lavoro unitario della Spagna è stato guidato più dall’aumento della produttività che dei salari”.

Quanto a noi, “l’Italia non ha sperimentato una profonda riduzione della crescita dell’ULC, anzi i salari continuano a crescere”.

In effetti, se guardiamo il grafico, notiamo subito che l’indice dell’ULC tedesco (2000=100) non arriva neanche a 110 nel 2012 e rimane il più basso fra i paesi considerati, parecchi punti sotto la media Euro (circa 130).

Il problema nasce dal fatto che “la riduzione dei salari si è trasferita con lentezza e in maniera incompleta nello sviluppo dei prezzi”. Parte di questo mancato trasferimento, scrive la Commissione, si può spiegare con il simultaneo aumento del carico fiscale, generato dalla esigenza del consolidamento dei conti pubblici nei paesi in difficoltà”.

Ma in ogni caso “il recente trend di inflazione bassa nei paesi vulnerabili suggerisce che il costo del lavoro sta progressivamente trasferendosi sui prezzi”.

Provo a tradurre. La politiche deflazionarie sul lavoro (che hanno generato più profitti) iniziano a trasferirsi sui prezzi solo di recente in virtù delle spinte deflazionarie (leggi inflazione sempre più basse) che stanno interessando tutte le economie fragili.

Provo a dirla ancora più semplicemente. Deprimere la domanda interna (cos’altro provoca il taglio dei salari?) finisce prima o poi col far scendere tutti i prezzi, anche quelli all’export. Ma è la depressione il driver, il costo del lavoro è solo lo starter.

Il fatto che sia aumentata la quota dei profiti, tuttavia, non comporta di per sé che le imprese ridano. “L’incremenoi dei margini di profitto dal 2010 – scrive la commissione – può essere parzialmente visto come una contropartita del collasso di tali margini fra il 2008 e il 2009″. Senza contare che le imprese hanno visto aumentare il costo dei contributi e ciò ha finito con l’assorbire parte dei calo dei salari.

Ma aldilà dei margini di profitto, è la profittabilità delle imprese, la variabile sulla quale si concentra l’analisi della commissione. “Anche se i margini di profitto aumentano a causa del calo del costo del lavoro, la profittabilità può rimanere sotto pressione a causa delle vendite scarse”.

La commissione ci regala uno studio econometrico, che come ttti questi studi va preso con le pinze, al termine del quale viene fuori che “i cambiamenti nel costo del lavoro non sono associati in generale con la profittabilità”, anche se “gli incrementi del costo del lavoro nei settori votati all’export sono negativamente correlati con il cambio della profittabilità”. Cioé se aumenta l’uno diminuisce l’altra. Ma tale correlazione funziona bene nei paesi fragili “mentre è quasi nulla nei paesi core”.

Per giunta, tale correlazione funziona a patto però che questi paesi spostino l’attenzione dal settore non export a quello export per aumentare la propria capacità mercantile.

La commissione conclude così: “La moderazione salariale si sta trasferendo lentamente sui prezzi, anche se non completamente, a causa del parziale ricovero dei margini di profitto, malgrado la profittabilità rimanga bassa a causa del calo delle vendite”.

Questa parziale trasmissione della moderazione salariale sui prezzi può essere “potenzialmente positiva se conduce alla riallocazione delle risorse dalle industrie domestiche tutelate a quelle export-oriented”.

Tale riallocazione tuttavia, almeno finora, sembra più guidata dalla pressione del deleveraging e dalle difficoltà finanziarie piuttosto che da una precisa scelta di politica industriale.

Dopo l’apolitica fiscale, anche l’apolitica industriale.

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