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Basta con le bugie ideologiche della coppia Alesina-Giavazzi

Non vi nascondo che ho letto con estremo interesse l’articolo in prima pagina del Corriere della Sera pubblicato il 5 novembre a firma di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, nel quale “spronano” l’esecutivo nel cedere asset dello Stato per reperire risorse da destinare alla riduzione della tassazione. Non potendo fare a meno di dissentire su alcuni punti ed essendo però un semplice docente di una Università di provincia (ndr., Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara) a cui è difficile accedere alla più prestigiosa testata nazionale, approfitto della sempre cortese ospitalità di Formiche.net per poter replicare.

Prendo subito spunto dalla fine dell’articolo per contestare come la cessione della Nuovo Pignone non sia stata determinante per i destini della società acquisita da Enrico Mattei nel 1954 dopo la famosa telefonata di Giorgio La Pira. Nel dicembre dell’86 la portai personalmente in quotazione nella veste di Direttore Generale della Sofid, Capogruppo finanziaria e braccio operativo della Direzione Finanziaria dell’Eni e posso tranquillamente affermare che già dalla fine degli anni ’80 la società fiorentina era un’eccellenza a livello mondiale, leader nella progettazione e produzione di turbine a gas per esclusivo merito di un management e di una maestranza d’eccellenza e senza ombra di dubbio, avrebbe continuato comunque a tenere altissimo il know-how della società sotto il controllo pubblico anche senza il contributo del partner estero in questione, fra l’altro suo concorrente diretto. Quando dovetti apporre anche la mia firma sui “fissati bollati” (allora ancora esistevano) nel 1993 per trasferire una parte delle quote al nuovo proprietario, ero perfettamente consapevole che ci stavamo spossessando di un gioiello. Tutto questo per precisare che il Nuovo Pignone sarebbe continuato a crescere benissimo comunque anche sotto l’Eni e che la General Electric non rilevò un’azienda decotta trasformandola d’incanto da zucca in carrozza, anzi molto probabilmente l’acquisizione ha accresciuto gli orizzonti dell’acquirente più di quelli ora accreditati alla Nuovo Pignone stessa.

Le privatizzazioni compiute negli anni successivi, poi, non hanno goduto di grandi fortune: dalla Telecom, dopo essere passata di mano diverse volte, a tutt’oggi non ha trovato il suo giusto assetto di proprietà con l’ormai certa e prossima prospettiva di finire all’estero, all’Alitalia, dove non si è riusciti a trovare un azionariato capace di far affluire i sufficienti capitali per concepire un piano industriale valido a supporto del suo rilancio. Anche in questo caso arriveranno capitali stranieri a privarci della compagnia di bandiera in una Italia divenuta un grande outlet in cui vengono volentieri tutti a fare shopping nella totale complice indifferenza delle istituzioni.

Lo Stato quando vende non deve preoccuparsi solamente d’incassare risorse per tappare i tanti buchi nel bilancio, ma soprattutto di individuare anche azionisti in grado di garantire la continuazione proficua dell’azienda e di supportare l’occupazione. Quindi se non è quasi mai stato capace di provvedere adeguatamente per l’incapacità degli uomini preposti e per la mancanza di precise linee politiche, ben venga il parcheggio nella Cassa Depositi e Prestiti in attesa di tempi migliori, anche facendo ricorso ad alchimie contabili al limite dei Regolamenti Comunitari previsti dall’ESA 95.

Per tornare invece alle “candidate” quote di aziende da cedere ancora in possesso del Tesoro (mi piace ancora chiamarlo così), tanto per citare quelle apparse nell’articolo, cioè ENI, ENEL, TERNA, FINMECCANICA, FINCANTIERI, POSTE ITALIANE, ST MICROELECTRONICS, siamo certi che la redditività di questi asset rispetto al loro prezzo di vendita sia inferiore al costo medio del debito pubblico che si va ridurre? Perché se fosse superiore saremmo dei pazzi incoscienti a cedere partecipazioni che rendono più del costo medio sostenuto per il mantenimento del debito che si va ad abbattere. Senza considerare che una volta cedute a stranieri i relativi dividendi prenderebbero inesorabilmente la strada oltre i confini in nome della tanto osannata globalizzazione, le cui regole non scritte sembrano essere rispettate solo da noi. Vi ricordo inoltre che da quando l’Italia adotta l’euro, l’indice della Borsa di Milano è ancora sotto del 65% e conseguentemente la parola vendita sarebbe intesa più come svendita e potrebbe nascere il più che fondato sospetto che si voglia favorire qualcuno, magari per accreditarsi benevolmente presso interlocutori internazionali.

E poi attenzione agli immobili: finché si tratta di cedere caserme e ruderi alle ortiche è un conto, ma quando si tratta di alienare edifici occupati da amministrazioni pubbliche, si rischia poi o di adeguare gli affitti a quelli di mercato o trovare nuove allocazioni a costi superiori. Insomma come ci si muove si rischia di peggiorare notevolmente la situazione e per incassare oggi 1, ci si mette nelle condizioni di pagare domani 2!

Ho voluto solamente fare alcune precisazioni contabili perché verrebbe anche spontaneo chiedersi quale classe politica dirigente consapevole cederebbe quote rilevanti fino a perdere completamente il controllo di società così strategiche per la sicurezza e strategia nazionale senza neanche più la possibilità di aggrapparsi alla golden share (sempre grazie ai dettami europei)? La stessa Eni, considerata il vero Ministero degli esteri italiano, capace di tessere eccezionali relazioni internazionali ad enorme beneficio anche di altre aziende nazionali, se finisse sotto il totale controllo estero siamo anche qui certi che continuerebbe a fare nello stesso modo gli interessi di casa nostra?

C’è qualcuno in buona fede che pensa che nazioni come gli USA, Russia, UK, Francia o Germania si priverebbero di tali gioielli con la nostra stessa disinvoltura, per non dire stoltezza, solo per “abbattere” di un piatto di lenticchie il proprio debito o di restituire sotto forma di sgravi fiscali per qualche mese il corrispettivo di un pacchetto di sigarette a capofamiglia? E la stesso identico ragionamento, con sfumature diverse, può essere fatto anche per le altre partecipazioni. La stagione delle privatizzazioni in questo contesto politico-economico è definitivamente tramontata.

Ricordo, solo per i più distratti, che le politiche del rigore del senatore professor Mario Monti, alla guida dell’esecutivo per 17 mesi, non hanno fatto altro che aumentare lo stock del debito pubblico di 148,6 miliardi, passando dal novembre del 2011 all’aprile del 2012 da 1892,7 miliardi a 2041,3 miliardi, come non vi era riuscito mai nessuno dai tempi di Camillo Benso Conte di Cavour! Siete ancora convinti egregi professori, che il problema del debito oggi si risolvere cedendo asset? Vogliamo fare il solletico agli elefanti? Non vi rendete conto che la politica dell’austerity tanto caldeggiata anche da Letta non è supportata da nessun presupposto scientifico, ma partorita da una ideologia e si sa che le ideologie se non sono condivise per il bene comune prima o dopo finiscono per infliggere pesanti conseguenze alla popolazione?

Perché invece non iniziate pubblicamente a considerare, perché sono certo che in privato lo fate già da tanto, che il vero problema si chiama moneta comune? Sapete perfettamente, forse meglio di chiunque altro, che la gestione del fabbisogno finanziario di uno Stato può essere gestito per mezzo della fiscalità, dei tagli di spesa pubblica e con la monetizzazione. Visto che il ricorso fiscale non è più perseguibile nel nostro Paese, a meno di non inciampare sui cadaveri delle aziende e dei cittadini stessi e che per quanto si alternino titolatissimi esperti alla spending review, alla fine non si riesce a risparmiare più di 2-3 miliardi (gocce nel mare magnum del debito), perché non riesumare lo strumento principe della politica monetaria?

Nei 200 e passa Paesi organizzati sotto forma di Stato che compongono il Pianeta Terra, solo 17 non l’adottano! Esserci anche noi affidati a un modello economico che prevede l’ossessiva stabilità dei prezzi con la diminuzione dei deficit, fino al pareggio di bilancio, e con la riduzione pianificata dei surplus di debito oltre la soglia di una quota determinata con criteri aleatori (60% di Maastricht) come esclusivo presupposto per la crescita, ci ha ridotto in queste tragiche condizioni, oltre ad aver avallato che si appestasse di deflazione ogni angolo di Europa. Non vi siete accorti che questo modello proposto-imposto dalla Germania avrebbe immancabilmente condannato i cittadini e il sistema delle imprese ad essere i veri prestatori di ultima istanza? Era questo quello che si voleva?

La Gran Bretagna, che prima dell’inizio della crisi aveva dati macroeconomici molto simili a quelli italiani, ha monetizzato parte del suo debito stampando e nonostante la sua economia per natura fosse più esposta agli effetti della crisi finanziaria, ha mantenuto il tasso di disoccupazione fra il 7,5 e l’8%, infischiandosene dell’inflazione e del tasso di cambio e riuscendo contestualmente a mantenere tassi positivi di crescita. Inutile citare cosa succede oltre Altantico e oltre Pacifico.

Perciò, perdonatemi dello sfogo, non promettete ciò che non è possibile promettere perché in questo sono molto più bravi i politici; da voi ci si aspetta che non professiate come le tasse si diminuiscono con la vendita di asset pubblici perché sarebbe come voler fare le nozze con i fichi secchi e l’acqua di fonte, ma di guardare in faccia la realtà e denunciare che se ci troviamo con le spalle al muro lo dobbiamo per avere più o meno inconsapevolmente abbracciato un modello economico che non farà mai i nostri reali interessi e non attacchiamoci alla svendita di quel poco di buono che ci è rimasto!


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