A ciascuno il suo. Non Beppe Grillo, per le grida lanciate in piazza contro chissà quale e quanta parte del Pd tentato di “salvare” Silvio Berlusconi a scrutinio segreto dalla decadenza parlamentare. Non la vice presidente del Senato Linda Lanzillotta, fedelissima dell’ormai ex tecnico Mario Monti, che ha fatto pendere la bilancia della competente giunta di Palazzo Madama per una interpretazione del regolamento in funzione contraria al voto segreto. E’ stato piuttosto l’avvocato amministrativista ed ex parlamentare comunista Giovanni Pellegrino, forte dell’esperienza vissuta nel 1993 come presidente della giunta senatoriale delle elezioni e delle immunità, a convincere nelle scorse settimane a favore del voto insolitamente palese, e perciò militarizzato, sulla sorte del mandato parlamentare di Berlusconi una dirigenza del Pd ancora incerta e divisa di fronte all’offensiva intimidatrice dei grillini.
IL FORCING DEI 5 STELLE E I PRECEDENTI STORICI
Offensiva intimidatrice, quella dei grillini, per il sospetto coltivato a sinistra di vedersi attribuire in pubblico la pur indimostrabile responsabilità di un voto segreto a favore di Berlusconi espresso perfidamente proprio dai senatori a cinque stelle. Come fecero alla Camera il 29 aprile 1993 molti leghisti, e forse anche missini, nei confronti della Dc, contribuendo con il voto segreto alla bocciatura di alcune autorizzazioni a procedere giudiziariamente contro Bettino Craxi. Per ritorsione, appunto contro la Dc, l’allora “verde” Francesco Rutelli e i ministri del Pds-ex Pci di un governo appena formato da Carlo Azeglio Ciampi si dimisero. E il giorno dopo Craxi, colpito da minacce, insulti, monetine ed altro, rischiò il linciaggio della folla davanti all’albergo romano dove abitava.
I CONSIGLI E I RICORDI DI SPADOLINI
Per effetto di quel clima politico e di quello spettacolo di piazza, cioè per paura, si svolse nell’ufficio dell’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini una riunione rivelata qualche settimana fa sull’Unità proprio da Pellegrino, mosso dal proposito di dare la dritta, diciamo così, ai dirigenti del Pd alle prese con le proteste dei grillini contro la possibilità di votare a scrutinio segreto sulla decadenza di Berlusconi da parlamentare. In quella riunione Spadolini chiese a Pellegrino se e come si potesse evitare di votare a scrutinio segreto nell’aula di Palazzo Madama sulla proposta appena formulata dalla giunta dell’immunità di lasciare indagare e processare Giulio Andreotti a Palermo per mafia.
I PERCHE’ DEL VOTO PALESE E LA MANO DI ANDREOTTI
Pellegrino rispose che, per quanto si trattasse del destino personale di un parlamentare, la scelta del voto palese avrebbe potuto prevalere su quella del voto segreto considerando come posta in gioco il rapporto fra il Parlamento e la magistratura che aveva chiesto di procedere contro il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio. Era un argomento francamente un po’ troppo leguleico, contraddetto peraltro dagli scrutini segreti svoltisi sino ad allora su analoghe iniziative giudiziarie, ma Spadolini volle scambiarlo per buono. A condizione però che Pellegrino glielo ufficializzasse con un parere formale dell’ufficio di presidenza della giunta delle elezioni. Cui Pellegrino provvide spianando così la strada a quel voto palese in aula cui, intimidito pure lui dal clima forcaiolo esploso contro Craxi, lo stesso Andreotti decise di partecipare votando con la mano alzata contro di sé. E liberando il suo partito, la Dc, da ogni tentazione di opporvisi.
VOTO PALESE, IERI E OGGI
Allora si ricorse al voto palese con il pretesto del livello istituzionale dei rapporti in gioco. Oggi si è deciso, salvo sorprese dell’ultima ora, di ricorrervi a proposito di Berlusconi, secondo quello che potremmo definire “lodo Pellegrino”, con l’argomento non meno leguleico, e pretestuoso, della tutela della composizione del Senato. E in esecuzione di una recente legge ordinaria, e delegata, quella che porta il nome dell’ex Guardasigilli Paola Severino, apparsa di dubbia costituzionalità a giuristi di area di destra e di sinistra. Dubbia sia per il suo carattere retroattivo, risalendo i fatti contestati a Berlusconi con la condanna definitiva per frode fiscale a molto prima della sua entrata in vigore, sia per la sua applicazione a parlamentari provvisti di tutela costituzionale, diversamente dagli amministratori locali decaduti per suo effetto dopo avere subìto verdetti giudiziari di un certo tipo.
I NODI DEL LODO PELLEGRINO
Ma oltre a questo, e alla differenza abissale che pure corre tra la vecchia autorizzazione a procedere votata contro Andreotti, poi abolita dalla Costituzione, e l’ancora più impegnativa decadenza di un parlamentare, il lodo Pellegrino che il Pd ha voluto adottare nella vicenda di Berlusconi ha anche il vizio di nascere da un espediente ancora più clamoroso. Che è stato peraltro raccontato dallo stesso Pellegrino con trasparenza non si sa se più lodevole o sconcertante.
QUELL’ESPEDIENTE DEL ’93
L’espediente, che sarebbe forse meglio chiamare imbroglio, fu quello di rovesciare nel 1993 il quesito sottoposto ad una Giunta delle elezioni e immunità spaccata esattamente a metà. Il presidente fece votare non sul sì alla richiesta della magistratura, come volevano prassi e buon senso, ma sul no. In modo da fare risultare bocciato, a parità di voti, appunto il no. E arrivare con questo risultato in assemblea per completare l’operazione. Una vicenda in qualche modo emulata dopo 20 anni, in una continuità contrassegnata da una miscela di viltà, opportunismo e imbarbarimento della lotta politica.
Francesco Damato