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Bullismo o violenza?

Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi sull’Arena di Verona

Prendere a calci una ragazza di quattordici anni, fa rabbrividire. Ma prenderla a calci perché s’è permessa di protestare per il comportamento incivile di suoi coetanei in un mezzo pubblico, va al di là dell’indecenza: significa che stiamo rovesciando i ruoli non meno delle parole.

Finiamo per chiamare “bullismo” quel che è, invece, “violenza”. Rischiamo, così, di sbagliare due volte. La prima sminuendo il gesto giusto dell’adolescente che ha reagito. Per questo, a fronte della richiesta innocente di “non disturbare più”, è stata insultata anche fuori dall’autobus, ferita sul volto con un graffio e nell’animo con gli insulti. Quasi che, “se si fosse fatta i fatti suoi…”, oggi non avrebbe una prognosi di dieci giorni e una brutta storia da ricordare. E i carabinieri non sarebbero stati costretti a intervenire per individuare i sei aggressori. Ma in barba all’indifferenza imperante, specie fra gli adulti, è importante far sapere alla ragazza che ha fatto bene a non tacere. Il civismo comincia anche dentro un autobus, chiedendo agli interlocutori sconosciuti di abbassare il tono della voce, se esso molesta o addirittura offende gli altri.

L’altro rischio è di ridurre la vicenda a una saga di paese, alla ragazzata di un gruppo di amici sul bus verso la scuola, alla bravata di cinque ragazze e ragazzi minori (e di una diciannovenne) che in fondo volevano solo divertirsi a spese del resto della comitiva. Insomma, i passeggeri dovevano sopportare, anziché denunciare, l’innocua provocazione dei pochi.
Ma nel suo piccolo, che tanto piccolo non è, la notizia di una ragazza picchiata perché ha osato chiedere a sei giovani un po’ di educazione, è la conferma di un mondo capovolto. Dove la paura addormenta le coscienze, e la violenza prima verbale e poi fisica la fa da padrona. Dove la mancanza di insegnamenti in famiglia e nella scuola produce i suoi effetti vistosi e dolorosi. Dove il menefreghismo a ogni livello fa vacillare quel che resta del principio di autorità. Ormai tanti ragazzi salgono sull’autobus considerando il conducente non già la persona responsabile del viaggio (a cui un tempo era perfino “vietato parlare”), ma come un individuo qualsiasi, all’occorrenza da prendere anche a male parole.

Certo, scavando nelle storie di ciascuno dei sei denunciati, non sarà difficile trovare i perché della loro ”impresa” prontamente finita sul social network. Sono ragazzi che hanno tutta la vita davanti per cambiare, e si può sperare che lo faranno: guai a una società che non aiuta chi ha sbagliato. Purché però dica, alto e forte, che ha sbagliato.

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