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I cento anni dei “Frammenti lirici” di Clemente Rebora

Un secolo fa, alla fine del giugno 1913, usciva in supplemento all’anticonformistica rivista letteraria “La Voce”, l’opera prima e più importante del poeta milanese Clemente Rebora (1885-1957), i “Frammenti lirici”. Il successo di questi versi intessuti di meditazione, che ispireranno Montale e Ungaretti e faranno pensare a T.S. Eliot, fu immediato. Ne emergeva l’immagine di un uomo incatenato, ma aperto alla Speranza: “Fra catene, libertà mi ride / e vien nell’ore mediocri l’eterno“, scriveva l’allora trentenne Rebora. Non è un caso che, poco dopo questo “exploit”, comincerà per questa grande anima inquieta un cammino di conversione alla Fede cattolica che la porterà nel 1929 a ricevere il sacramento della Cresima dalle mani dell’allora Cardinale arcivescovo di Milano, oggi Beato, Ildefonso Schuster (1880-1954).

DA GARIBALDI A CRISTO

Rebora era nato a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese, il cui padre, che aveva combattuto con Giuseppe Garibaldi a Mentana, si preoccupava costantemente di tenere il ragazzo lontano dall’esperienza religiosa educandolo agli ideali risorgimentali e socialisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo. Dopo il liceo, il giovane frequentò la facoltà di medicina a Pavia, comprendendo però ben presto che non si trattava della sua strada. Passò quindi a Lettere, iscrivendosi all’accademia scientifico letteraria di Milano, presso la quale si laurea, intraprendendo con passione l’attività d’insegnante.

LA COLLABORAZIONE CON LA VOCE DI PREZZOLINI

Proprio con articoli di argomento pedagogico cominciò a collaborare alla rivista “La Voce”, fondata a Firenze nel 1908 da Giuseppe Prezzolini (1882-1982) ma, allo scoppio della prima guerra mondiale parte per il fronte del Carso, prima da sergente, poi da ufficiale. Ferito alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato per tutta la vita e, dopo questa esperienza traumatica, al ritorno alla vita civile si auto-impone un regime molto austero, arrivando persino a devolvere buona parte del suo stipendio a famiglie del popolo e poveri, questi ultimi spesso ospitandoli anche in casa. Nel 1922 pubblicava quindi “I canti anonimi“, nei quali continuava la scoperta dei valori dello Spirito. La sua poesia rispecchiava sempre più l’attesa di “Qualcuno” che, lentamente, cominciava a irrompere nella sua anima. “Sono un cane – scriveva – che fiuta il Divino“.

LA VOCAZIONE AL SACERDOZIO

Cominciò quindi a leggere Dante e Manzoni ma, solo il 1928 fu il suo vero anno di grazia, quello in cui arrivò a riconoscersi ormai alla soglia della Chiesa Cattolica: “Da 20 anni, ho provato tutte le vie, e le ho trovate tutte ingannevoli, all’infuori di quella indicata da Gesù e da Maria“, scrisse in una lettera. Nel marzo del 1930 incontrava i Padri Rosminiani, con i quali iniziava un ritiro di sei mesi a Stresa. Seguì il noviziato a Domodossola. Il 13 maggio 1933, emetteva i primi voti religiosi. Quindi gli studi teologici. Il 19 settembre 1936, il prof. Clemente Rebora era ordinato sacerdote di Cristo da Mons. Raffaele De Giuli (1884-1963), un pastore d’altri tempi che era allora vescovo della diocesi campana di Vallo di Lucania.

LA BIBBIA E IL CREATO

Nella maturità la sua poesia è sempre più affascinata dalla Bibbia, come risulta in particolare dal commento che scrisse al Salmo 104, recentemente citato anche dal presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, il card. Gianfranco Ravasi, nella sua relazione alla 35a Convocazione Nazionale del movimento cattolico “Rinnovamento nello Spirito Santo” (cfr. Il linguaggio dello Spirito, in agenzia Zenit, 2 maggio 2012). Rebora descrive in questo scritto il senso mistico di uno Spirito Divino che abbraccia tutto l’universo e la natura creata. Nella poesia, datata aprile 1953, egli si immagina davanti ad un ramoscello verdeggiante di mandorlo fiorito, vicino ad un fuscello d’erba e, invece di dire che la rugiada che vi si depone è “stillante”, con licenza scrive “stellante”, fondendo l’immagine della natura con quella cosmica e stellare del cielo. Ecco le sue parole: «Ramoscello primaverile, a roselline, in boccio, aperte, fra slanci leggiadri di foglioline, accanto a un tenue fuscello, stellante di candide trine, nel semplice incanto dell’essere, buona bellezza: o Spirito del Signore, che tutto abbracci, e ricrei la faccia della terra, amoroso lavoro il filo d’erba. Il filo d’erba dunque come amoroso lavoro di Dio». Tutto il reale è per Rebora un segno che rimanda ad altro, oltre sé, più in là. Tutto, insomma, è “analogia” che chiede di “tendere a”, ovvero di “ad-tendere”. Come nella mistica classica, il suo incontro con Dio accade al culmine di una lunga salita, dopo aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando si vede schiacciato da nebbia e disperazione. A salvarlo dallo smarrimento era stato dapprima un richiamo, un indizio: la poesia e il creato.
Come ha scritto monsignor Antonio Livi, già decano della facoltà di Filosofia della Pontificia università lateranense, «Clemente Rebora era poeta prima del suo incontro con la fede cristiana, prima della sua conversione alla vita cristiana, prima della sua vocazione al sacerdozio; prima di tutto questo Rebora era stato un intellettuale, aveva combattuto sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, aveva pubblicato le prime raccolte di poesie. La conversione religiosa non fu estranea alla sua personalità di poeta: ritengo anzi chela poesia fu per lui una vera e propria preparatio evangelica, come fu la filosofia platonica per san Giustino martire nel secondo secolo» (A. Livi, Introduzione,in A.a.V.v., La dimensione religiosa della poesia: Clemente Rebora, con un’Appendice col testo raro di Clemente Rebora “La letteratura italiana alla luce della Fede”, Società editrice Dante Alighieri, Roma 1994, p. 3).

LA DAMNATIO MEMORIAE

Alla critica laicista non è piaciuto il Rebora mistico, cattolico, e la sua poesia che si fà preghiera e parola “para-liturgica”. L’esaltazione del laico Rebora è andata quindi di pari passo con la “damnatio memoriae” della produzione poetica del Rebora sacerdote, considerandola meno valida della prima perché cristianamente ispirata. In realtà, il poeta milanese non è stato né il primo né l’ultimo a compiere, da letterato, un simile cammino, anzi. Ha riconosciuto la migliore critica contemporanea: «non è vero che non vi sia un Rebora poeta dopo il suo ingresso in convento. Nonostante che molti siano convinti che la stagione reboriana sia solo quella della poesia dei Frammenti lirici, […] Rebora ha goduto della rivalutazione da parte di Gianfranco Contini e Carlo Bo: la sua venne considerata alla fine come una delle più alte testimonianze della nuova poesia italiana di primo Novecento, una delle più importanti risposte alla magniloquenza dannunziana, ma anche proposta attiva di una lirica capace di leggere profondamente nei cuori in tempesta degli stürmer [espressione in lingua tedesca per dire “irruenti, teste calde”] vociani» (Marco Testi, Quando il conflitto è con sé stesso. Sulla poesia di Clemente Rebora, in Fili d’aquilone. Rivista online d’immagini, idee e Poesia, Numero 10, aprile/giugno 2008).


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