Nell’epoca dei luoghi comuni, vale la pena appassionarsi ad analisi come quella che ha pubblicato il Nber che si propone di rispondere a una domanda annosa quanto controversa: il lavoro flessibile di tipo americano fa davvero crescere il mercato del lavoro?
Il paper (Failing the Test? The Flexible U.S. Job Market in the Great Recession) firmato da Richard B.Freeman prende in esame il periodo della grande recessione provocata dalla crisi iniziata nel 2007, ed è concentrata sul mercato del lavoro americano, che certo non può essere sospettato di rigidità.
“La grande recessione – scrive – ha testato l’abilità della grande ‘macchina americana del lavoro’ a limitare la severità della disoccupazione nelle maggiori economie e a recuperare la piena occupazione”. Ma purtroppo, “nella crisi il mercato americano del lavoro ha deluso le aspettative”.
Il livello e la durata della disoccupazione, infatti, “sono aumentati sensibilmente durante la crisi e la crescita dei posti di lavoro è stata lenta e anemica nel momento della ripresa”.
Vi ricorda qualcosa?
La conclusione è alquanto impietosa: “La performance americana nella grande recessione contraddice l’opinione convenzionale della virtù della flessibilità rispetto all’approccio istituzionale per l’aggiustamento del mercato del lavoro e contraddice anche la nozione che istituzioni del lavoro deboli e una maggiore flessibilità del mercato offrano la strada migliore per il successo economico in una moderna economia capitalista”.
Potremmo concludere qui, ma vale la pena leggere la trentina di pagine dello studio perché scopriamo altre chicche utili a sviluppare la nostra capacità di comprensione di questi fenomeni.
Prima della grande recessione, gli economisti e i politici americani magnificavano la “US jobs machine”, ossia la macchina fabbrica-lavoro americana, come il segno più evidente della capacità di un mercato del lavoro flessibile a creare occupazione. Punti di forza di questa “macchina” erano (e sono) la facilità di licenziamento, la flessibilità delle retribuzioni e la mobilità dei lavoratori, che possono muoversi facilmente da un lavoro all’altro senza particolari problemi.
Questo almeno dice la vulgata.
Vulgata peraltro fondata empiricamente sul grande incremento di occupazione che l’economia americana ha visto fra il 1980 e il 1990, quando i tassi di disoccupazione Usa surclassarono quelli di altri paesi occidentali. “Poiché i lavoratori americani lavorano più ore e prendono meno vacanze, il gap fra gli Usa e le altre economie avanzate divenne sempre più grande relativamente al numero di ore lavorate”.
La famosa produttività crescente.
Qualcuno si accorse che tale miracolo portava con sé un crescente tasso di ineguaglianza, tassi di povertà stagnanti e decadenza delle rappresentanze sindacali, senza contare gli effetti che tali politiche avevano sul welfare (pensioni e sanità).
Ma che volete che sia.
Di fronte all’imperio dei numeri positivi gli economisti celebrarono il modello americano indicandolo come la strada maestra per i paesi europei che da quel momento in poi furono invitati a “riformare il mercato del lavoro”.
Il Fmi profetizzò, nel 2003, che tali riforme avrebbero potuto condurre a un guadagno di prodotto del 5% e a un calo di disoccupazione del 3%. “Tali benefici. aggiunse – possono anche raddoppiare se si verificano sforzi simultanei per aumentare la competitività nel mercato dei prodotti”.
Più o meno quello che si dice oggi.
Senonché, intanto, l’America, spinta dalla crisi, ha iniziato a mettere in discussione l’ennesimo dogma della flessibilità/mobilità.
La visione del miracolo del mercato del lavoro americano è stata messa in discussione da diverso tempo negli Usa.
Una ricerca svolta dall’autore su Google sulla key “great american jobs machine” mostra risultati tipo: “Chi ha rotto la macchina amerciana crea-lavoro?”, oppure “Finalmente si è rotta la grande macchina americana crea-lavoro?”, mentre a gennaio 2013 l’American economic association apriva una sessione sul tema domandandosi “Cos’è successo al miracolo dell’occupazione americana?”.
Per contrasto, nota malignamente l’autore, se si fa una ricerca su Google col termine “mercato del lavoro tedesco e grande recessione”, vengono fuori titoli come “Cosa spiega il miracolo del mercato del lavoro tedesco?”, oppure “Un altro miracolo economico: il mercato del lavoro tedesco durante la grande recessione”.
Prima di rispondere a queste domande, vale la pena evidenziare alcuni dati.
La perdita di occupazione sofferta dagli Usa fra il 2007 e il 2009 è stata la peggiore registrata dal dopoguerra in poi. La perdita di posti di lavoro è arrivata al 6,3%, un’enormità paragonata al range 1,2-5,2% (media 3%) di perdita di posti di lavoro sofferta dall’economia Usa negli ultimi sessant’anni.
Ad aggravare la situazione, la circostanza che quattro anni dopo il 2009 la recessione è ufficialmente terminata, ma “l’occupazione rimane sotto il suo livello di picco e sembra improbabile che recuperi tale livello prima di tre-quattro anni”. In pratica, si è allungato anche il tempo necessario al mercato del lavoro a riprendersi.
Nel 1981 bastarono due trimestri per vedere gli effetti positivi sul lavoro dalla fine della recessione.
Dopo la recessione del 1990 ce ne vollero quattro.
Nel 2001, addirittura, malgrado una crisi molto breve, la perdita di posti di lavoro proseguì anche nei trimestri positivi.
Quello che emerge, quindi è un indebolimento del legame fra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione.
Lo confermano anche i dati dell’ultima crisi. Dalla fine della recessione a fine 2012 il Pil americano è cresciuto del 7,5%. L’occupazione di uno striminzito 1,2%.
Ce n’è abbastanza per dubitare del “miracolo” americano.
Che peraltro tale miracolo non sia poi così miracolo lo dimostra anche uno sguardo sulla storia.
Dopo la crisi del ’29, l’occupazione crollò fino al 1933 e non recuperò il suo livello pre-crisi prima del 1940 (mentre infuriava la guerra in Europa). E tuttavia, a fronte di un calo del Pil reale del 31%, fra il 1929-33, l’occupazione cadde “solo” del 18%. In pratica il contrario di quanto è accaduto ai giorni nostri.
Per il lavoro la crisi attuale è stata peggiore di quella degli anni ’30.
Lo dimostra anche come andarono le cose dal ’33 in poi. Il Pil reale crebbe del 44%, l’occupazione del 21%, un rapporto di elasticità pari a 0,48, che è il triplo di quello registrato ai giorni nostri (0,16).
Da cosa dipende questo cambiamento “storico”?
L’autore nota che, a differenza della grande depressione degli anni ’30, la grande recessione del XXI secolo si è basata escluviamente su stimoli macroeconomici, il salvataggio delle grandi banche e la politica monetaria della FEd, mentre altri paesi Ocse hanno aggiunto a queste politiche altre politiche capaci di incoraggiare le imprese a mantenere l’occupazione malgrado il calo di prodotto.
Il confronto con la Germania, ad esempio, mostra che nell’ultimo trimestre del 2010 sia la Germania che gli Usa avevano raggiunto il livello di Pil pre-crisi, ma mentre il mercato del lavoro americano era ancora sotto del 5,9% rispetto a prima, quello tedesco era aumentato dell’1,6%. Persino il Giappone è andato meglio.
Perché?
Secondo l’autore quello che ha funzionato di più è stato il modello tedesco basato sulla contrattazione sindacale, la flessibilità interna e la valorizzazione del lavoro suportata dall’intervento pubblico.
Al contrario ha fallito l”US-style”.
L’autore esamina una serie di questioni legate al modello di sviluppo americano, compresa la relazione fra salari e produttività, nell’ipotesi che le due variabili si siano sfasate (come si dice per gran parte dell’Europa). Senonché i dati mostrano che il mercato americano “è stato flessibile, sul lato dei salari”.
Allora forse c’è una terza questione, scrive, Vale a dire che responsabilità vadano cercate nella politica del licenziamento facile, riassumibile col detto “prima licenzia, poi chiedi”.
Forse – spiega – la facilità di licenziamento ha spinto i manager a focalizzare l’attenzione più sui loro bonus e sui profitti a breve, piuttosto che sulla ripresa. “Forse – aggiunge – tale lentezza nella ripresa del mercato del lavoro riflette la debolezza dei sindacati e la scarsa volontà del governo di fare politiche per l’impiego”.
Insomma: è il contesto che è diventato avverso al lavoro, malgrado i denari non manchino.
Il lavoro flessibile, conclude, può funzionare in un contesto in situazione di equilibrio, ma un contesto più istituzionalizzato (leggi meno affidato a pure logiche di mercato) può funzionare meglio in caso di crisi profonde.
E se lo dice lo zio Sam…