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Investimenti stranieri? Sì, grazie

Mentre in Italia è in corso un dibattito sulla “svendita” del made in Italy alle imprese straniere, nel Regno Unito i cinesi costruiranno la prossima generazione di centrali atomiche.

Il Ministro dell’Economia inglese George Osborne ha annunciato che il suo Paese consentirà ad imprese cinesi di partecipare, sotto la supervisione del gigante dell’energia francese EDF, allo sviluppo del progetto Hinkley C: la costruzione di nuove centrali nucleari nella provincia del Somerset per un investimento stimato di circa 14 miliardi di sterline.

Una mossa ritenuta strategica per spingere un numero sempre maggiore di investitori cinesi a portare i loro capitali nel Regno Unito. Non è un caso che l’uscita del Ministro sia contestuale alla firma di importanti accordi d’affari di società cinesi in UK: dall’investimento pari a 200 milioni di dollari per la costruzione di un centro ricerca e sviluppo da parte della telco Huawei; alla scelta di Londra come sede delle operations europee per Rekoo, la più grande gaming company asiatica; alla partecipazione del Construction Engineering Group alla nuova area business dell’aeroporto di Manchester.

La storica casa automobilistica inglese Range Rover, l’acciaieria francese Arcelor, il colosso tedesco del cemento Putzmeister: tutte acquisizioni compiute da aziende asiatiche accolte con favore a Londra, Parigi e Berlino dove i decisori politico-economici ritengono gli investimenti stranieri un pilastro strategico dello sviluppo economico nazionale.

In Italia, invece, una tesi ricorrente e piuttosto diffusa anche tra la classe politica vede in malo modo le recenti acquisizioni di celebri imprese italiane da parte di investitori esteri – da Loro Piana a Pernigotti a Emilio Pucci. Le motivazioni? Vi saranno licenziamenti di massa, le attività produttive verranno delocalizzate, l’orario di lavoro rivisto, l’“italianità” verrà cancellata. Sostanzialmente, solo svantaggi. Questa è una visione miope della realtà che mostra scarsa conoscenza del fenomeno e non si fonda su dati concreti.

Come ben spiegano Hufbauer e Suominen nel libro Globalization at Risk, le multinazionali straniere portano più benefici che svantaggi: “Studi dimostrano che le multinazionali portano nuovo capitale, creano occupazione, innovazione tecnologica, intraprendono ricerca e sviluppo, si integrano con le imprese locali. Il risultato è il trasferimento di skill manageriali, operative, di marketing e di esportazione ai residenti locali”. Altrettanto interessante, gli autori notano una differenza tra le imprese nazionali che esportano ma non hanno sedi produttive all’estero e le multinazionali – queste ultime “esibiscono un maggiore valore aggiunto per lavoratore, impiegano maggior capitale per lavoratore e assumono un maggior numero di personale qualificato”.

Le imprese straniere hanno il merito di portare innovazione tecnologica, definita dall’OCSE “il fattore principale sottostante all’aumento delle condizioni di vita” e “il sine qua non della crescita”. Soprattutto, creano occupazione e indotto, anche in Italia. Lo dimostra la statistica riportata da Federico Fubini su La Repubblica: 14 imprese simbolo del made in Italy acquisite da investitori esteri hanno aumentato l’occupazione di circa il 7% nell’ultimo decennio.

Prendiamo il caso Emilio Pucci. Prima che Vuitton scommettesse sulla fashion house acquisendo il 100% del pacchetto azionario, il fatturato non superava i 50 milioni di euro e la società faticava a penetrare nei mercati emergenti del lusso, soprattutto in Asia. Il colosso francese sapeva bene però che, integrando il know how storico del produttore fiorentino con la propria solidità finanziaria e liquidità economica, i propri canali distributivi, l’esperienza globale, oltre all’inserimento di un management estremamente qualificato e con background internazionale, il brand avrebbe preso il volo. E così è stato: ricavi raddoppiati in due anni e aperture di nuovi flagship store in programma nei mercati emergenti. Le ragioni della svolta sono tutte nelle parole pronunciate dal CEO, Alessandra Carra: “La famiglia è custode del patrimonio culturale, mentre Vuitton, con le sue dimensioni, favorisce lo sviluppo e tutto il sostegno possibile”.

Gli investimenti stranieri sono fondamentali per il trasferimento tecnologico, la crescita della competitività delle imprese nazionali e dunque per la crescita economica. L’Italia è ultima tra i grandi Paesi europei per attrazione di investimenti diretti esteri e per l’efficienza delle regolamentazioni d’impresa (Doing Business, Banca Mondiale). È solo un bene per la nostra economia – trainata dalle esportazioni e integrata nel mercato globale – mantenere un elevato grado di apertura al commercio e ai flussi di capitale internazionali. In questo senso, confortano le parole del ministro degli Esteri Emma Bonino e le iniziative di Farnesina e Governo volte a “rendere il Paese un ambiente più favorevole per gli investimenti italiani e stranieri”.

Emanuele Schibotto è direttore editoriale del Centro studi di relazioni internazionali Equilibri.net, dottorando di ricerca in geopolitica economica presso l’Università Marconi e co-autore del libro “Italia, potenza globale? Il ruolo internazionale dell’Italia oggi” (Fuoco Edizioni, 2012)


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