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Kennedy, l’americano che sfidò De Gaulle

Storicamente le nazioni hanno tenuto fede alle alleanze perché le conseguenze che sa­rebbero potute derivare dall’abbandonare un alleato venivano considerate più rischio­se dell’adempimento dei propri obblighi.

L’ERA NUCLEARE
Nell’era nucleare questa regola non era ne­cessariamente valida; abbandonare un allea­to poteva comportare un eventuale disastro, ma incorrere in una guerra nucleare al suo fianco garantiva la catastrofe immediata. Per intensificare la credibilità della minaccia, ma anche per ridurre la scala del disastro se la deterrenza non avesse avuto effetto, l’A­merica aveva un forte incentivo a rendere la guerra nucleare più calcolabile e meno catastrofica; così fra gli studiosi del settore mi­litare divennero sempre più frequenti con­cetti come “discriminazione degli obiettivi”, “controllo e comando centralizzati” e “stra­tegia di risposta flessibile”. Ma i suoi alleati si opponevano a queste misure temendo che se la guerra nucleare fosse divenuta più calco­labile, anche l’aggressione sarebbe stata più probabile. Inoltre, all’ultimo momento gli Stati Uniti avrebbero potuto non impiegare l’arsenale nucleare e così l’Europa si sarebbe trovata ad affrontare le condizioni peggiori: deterrenza ridotta e strategia non attuata.

LA DIFFIDENZA DI DE GAULLE
Eisenhower cercò di persuadere l’implacabi­le De Gaulle che una forza nucleare francese indipendente non era necessaria, e il tentati­vo di crearla fu un segno di diffidenza. Con la caratteristica mescolanza americana di lega­lismo e idealismo cercò una soluzione tecni­ca all’incubo di una guerra nucleare scatena­ta dagli alleati. Per De Gaulle, l’integrazione delle forze nucleari era un problema politico, non tecnico. Il presidente americano era inte­ressato soprattutto a un’efficiente struttura di comando in caso di guerra, quello france­se teneva non tanto ai piani strategici quan­to ad aumentare le sue opzioni diplomatiche mantenendo la libertà d’azione della Francia prima di qualsiasi guerra. Se contrariato, De Gaulle ricorreva alla nota tattica di far capire ai suoi interlocutori che disponeva di altre opzioni e così ordinò la rimozione delle armi nucleari statunitensi dal territorio francese e ritirò la flotta dal comando integrato Nato, dal quale la Francia uscì definitivamente nel 1966.

LO “SCONTRO” CON KENNEDY
Ma prima di intraprendere quel fatidi­co passo, si scontrò con il dinamico, giova­ne presidente americano John F. Kennedy. Kennedy rappresentava una nuova genera­zione di leader americani; avevano combat­tuto nella Seconda guerra mondiale, ma sen­za dirigerla e avevano sostenuto la costru­zione dell’ordine postbellico senza esserne stati creatori. I suoi predecessori, “presenti alla creazione”, si concentravano su ciò che avevano costruito; l’Amministrazione Ken­nedy aspirava a una nuova architettura. Per Truman ed Eisenhower scopo dell’Alleanza atlantica era la resistenza all’aggressione sovietica; Kennedy voleva formare una Co­munità atlantica che avrebbe aperto la stra­da a quello che sarebbe stato poi chiamato “nuovo ordine mondiale”. Proseguendo quell’obiettivo, l’Amministrazione Kenne­dy sviluppò un duplice approccio: cercare di trovare un’applicazione razionale per le armi atomiche e contemporaneamente elaborare una definizione politica di cosa inten­dere per “Comunità atlantica”. Kennedy era sgomento per le terribili conseguenze della dottrina militare della rappresaglia massic­cia ancora dominante. Con l’aiuto del bril­lante segretario alla Difesa Robert McNama­ra, si sforzò di sviluppare una strategia che creasse opzioni militari diverse da un’apoca­lisse o dalla capitolazione.

LO SCETTICISMO AMERICANO
Kennedy stigma­tizzò come “ostile” alla Nato il programma nucleare francese e il suo segretario alla Di­fesa deprecò il concetto di “forze nucleari europee”, comprese quelle della Gran Breta­gna. Il 4 luglio 1962 Kennedy proclamò la sua elevata “Dichiarazione d’interdipendenza” tra Stati Uniti ed Europa unita. L’Europa in­tegrata politicamente ed economicamente si sarebbe associata agli Stati Uniti in condizio­ni di assoluta parità, condividendo l’onere e gli impegni della guida mondiale. Approfon­dendo questo simbolismo in un successivo discorso alla Paulskirche di Francoforte, dove nel 1948 si era riunita l’Assemblea nazionale progressista, Kennedy abbinò prospettive di collaborazione fra l’Alleanza atlantica e l’in­tegrazione europea. La sua eloquente sfida prendeva di petto l’ambivalenza europea co­stituita dalla crescente forza economica e da un senso d’impotenza militare, soprattutto in campo nucleare. Le stesse caratteristiche che rendevano tanto attraente e necessaria agli Stati Uniti la risposta flessibile solleva­vano dubbi fra gli alleati Nato. Sebbene lo scopo degli Stati Uniti fosse stato intensifi­care la dissuasione rendendo più credibile la minaccia nucleare, la maggior parte degli al­leati preferiva basarla sul concetto opposto, e cioè aumentare il rischio dell’avversario attenendosi alla strategia della rappresaglia massiccia, per quanto distruttive potessero essere le conseguenze. Alla fine si arrivò a discutere del perché le nazioni collaborano. Secondo il punto di vista americano, tutti i popoli ragionevoli prima o poi arrivano alle stesse conclusioni; gli obiettivi comuni, per­tanto, sono dati più o meno per scontati e l’accento viene posto sui meccanismi idonei all’attuazione dell’armonia latente.

INTERESSI DA CONCILIARE
Gli stati­sti d’Europa concepiscono l’armonia come qualcosa da enucleare dal contesto caso per caso mediante deliberate azioni di governo. Negli anni Sessanta quello era precisamente il tema in discussione rispetto al controllo nucleare; era al centro del rifiuto di De Gaul­le di un’Europa sovranazionale e si sarebbe ripresentato negli anni Novanta in occasione del dibattito sul Trattato di Maastricht. Per quanto le risposte di De Gaulle fossero egoi­stiche, i suoi interrogativi miravano al cuore del ruolo internazionale degli Stati Uniti, di­venendo attuali particolarmente nell’epoca successiva alla Guerra fredda. Infatti, una delle lezioni più difficili che l’America deve ancora imparare è che le nazioni collabora­no anche per lunghi periodi finché condivi­dono fini politici comuni e che occorre con­centrarsi su questi anziché sui meccanismi impiegati per realizzarli. Un ordine interna­zionale funzionante deve lasciare spazio suf­ficiente per interessi nazionali contrastanti e cercare di conciliarli, non disinteressarsene.

Tratto dal numero di Formiche di novembre 2013 (n. 86)


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