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La PlayStation è solo un gioco

Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Non c’è retorica che tenga: prima o poi ogni generazione finisce per rimpiangere i valori del tempo che fu. Si rimpiangono i vent’anni che non tornano. Si ricorda il primo e dolce amore. Si rievoca un modo meno frenetico di vivere ogni momento della vita. Neanche il Sessantotto ha potuto cancellare il sentimento della solitudine che tante volte ha accompagnato, agli occhi di chi ascoltava, il racconto di nonni e di padri. I nostri “vecchi” che faticavano e faticano a riconoscersi nella società che cambia, e che cambia sempre più in fretta. E perciò la generazione di ieri si rifugia nella sua epoca lontana, che mai appare perduta. Come del resto l’infanzia, che – diceva uno scrittore – “quando diventiamo grandi, rincorriamo per tutta la vita”.

Ma quali valori potremo domani rimpiangere, nel ricordare che a Bergamo un ragazzo di tredici anni s’è buttato dal balcone di casa perché il padre gli ha rotto la PlayStation per punirlo dei brutti voti a scuola? Quali “sogni di famiglia” potremo mai tramandare ai giovani, a fronte di quella madre che a Roma s’è resa complice della prostituzione della figlia minorenne? E di altre bambine quattordicenni spinte a prostituirsi, come ha denunciato il vescovo dell’Aquila, Giovanni D’Ercole, per potersi comprare una ricarica del telefonino?

Tra una parte sempre più visibile dei giovani c’è un disagio sociale che va oltre la crisi economica. C’è una fragilità interiore che va al di là di qualunque frettolosa amicizia. C’è un bisogno di comunicare che quell’evocato ma concreto esempio della ricarica del telefonino rende, se possibile, ancor più urgente.

Tuttavia, guai a credere che rovesciando ogni colpa sui padri (o sulla scuola), risolveremo il problema di quanti, tanti ragazzi, non capiscono che la PlayStation è solo un gioco. E che un gioco non può durare in eterno, perché un giorno si diventa adulti. In un’epoca piena di bisogni e sempre più “condivisa”, tanto essa s’è estesa oltre ogni confine, non si può restare perennemente soli, a tu per tu col monitor che ha preso il posto degli incontri.

Ecco, ogni famiglia, ogni donna e uomo, ogni insegnante è chiamato nel suo piccolo al principio della responsabilità. Responsabilità nel dare una mano ai ragazzi perché imparino a scegliere. Perché sappiano distinguere l’importante dal superfluo. Perché si preparino al corso tormentato della vita. Un saliscendi fra dolori e felicità, tra speranze e delusioni, fra realizzazioni e ricerche all’insegna, però, di una bussola che i nostri nonni e padri, senza sbagliare, chiamavano “valori”.

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