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Papa Francesco chiude l’anno della Fede

 Questa mattina a piazza San Pietro è stata celebrata da papa Francesco la Messa di chiusura dell’Anno della Fede, iniziativa indetta da Benedetto XVI con il motu proprio “Porta fidei” e che ha avuto inizio l’11 ottobre del 2012, durante la quale si è anche tenuta una grande raccolta di solidarietà a favore delle popolazioni colpite dal tifone “Haiyan”.

Siccome però l’Anno della Fede viene a terminare proprio in coincidenza con la festa della regalità, anche sociale, di Gesù Cristo, forse sarebbe il caso di soffermarsi su questa poco riconosciuta ricorrenza e, in parte, sulle conseguenze sul tema dell’impegno del cattolico in politica, soprattutto nella fase così delicata della vita della nostra nazione che stiamo vivendo, che ne derivano.

Qualche anno prima della pubblicazione della sua prima enciclica sociale Rerum Novarum (1891), Leone XIII riproponeva estesamente l’insegnamento dottrinale della Chiesa sulla Regalità di Gesù Cristo, nell’enciclica “Immortale Dei” . E anche in seguito, nella “Annum sacrum” , il Pontefice confermava che Gesù Cristo è «re e signore di tutte le cose», specificando che la sua autorità «non si estende solo ai popoli che professano la fede cattolica […], ma abbraccia anche tutti coloro che sono privi della fede cristiana». Tutta l’umanità è, dunque, «realmente sotto il potere di Gesù Cristo», il quale «non ha il potere di comandare soltanto per diritto di nascita, essendo il Figlio unigenito di Dio, ma anche per diritto acquisito». Acquisito come? Con il suo sangue, versato sulla Croce: «ecco il prezzo» con cui, per comprare tutto, Cristo «ha dato tutto» se stesso.

Autonomia delle realtà temporali
Non che il regno di questo mondo coincida con il regno di Cristo. Leone XIII dichiara altrove che la Chiesa è posta per «estendere» e «dilatare» il regno di Cristo nel mondo. È Cristo stesso, infatti, ad affermare: «Il mio regno non è di questo mondo» .
Il regno di questo mondo, benché sorretto dalla Provvidenza divina, ha una sua autonomia, nel senso che il governo è esercitato dagli uomini (e dalle leggi fisico-chimiche). E questo non deve sembrare strano perché, così come Dio – causa prima di tutte le cose – creò l’universo soggetto alle leggi fisiche – cause seconde, che producono gli effetti del movimento e delle trasmutazioni chimiche -, allo stesso modo stabilì l’autorità civile e religiosa, la prima a governo delle nazioni e la seconda a governo delle anime.
Il potere di Dio sul cosmo è, dunque, reale ma indiretto, come pure suggerisce san Tommaso d’Aquino: «quanto alla potestà, tutto è soggetto a Gesù Cristo, anche se non tutto gli è soggetto quanto all’esercizio del suo potere», che Egli delega alle creature . Il fatto, però, che il sovrano goda di potere reale sui sudditi – così come le cause seconde della natura hanno reale potenza di muovere e trasmutare le cose – non significa che egli debba tenere lo sguardo fisso su di se e sui propri interessi ma, al contrario, «in qualsiasi tipo di Stato i Principi devono soprattutto tener fisso lo sguardo a Dio» . «Santo», allora, «dev’essere il nome di Dio per i Principi» . I sudditi, poi, non dovranno in alcun modo resistere alla legittima autorità civile, con «sedizioni» o rivolte, ma tributare al principe «ossequio e fiducia» . Si parla, comunque, di principato e sudditanza a prescindere da una qualche forma politica determinata, perché la Chiesa – in linea generale – non ha preferenze di ordine politico.
Quanto all’ambito civile, c’è dunque una «legittima autonomia delle realtà temporali», secondo l’espressione adottata molto più tardi dal Concilio Vaticano II , purché tale autonomia non venga confusa con l’indipendenza assoluta e la sussistenza equivoca degli enti in se stessi. Il Concilio, anzi, approfondisce ulteriormente: se «con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” s’intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce» .

Principio di laicità

Così la distinzione tra l’ambito civile e quello religioso non può significare separazione né, tanto meno, rottura. Leone XIII, sempre nella “Immortale Dei”, precisa meglio quello che nel secolo successivo sarà chiamato «principio di laicità», menzionato spesso però dal pensiero liberale, come pretesto per rivendicare l’autonomia assoluta dello Stato da ogni riferimento religioso. Il Santo Padre scrive che Dio «volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile, l’uno preposto alle cose divine, l’altro alle umane». In che modo, quindi, interpretare correttamente le parole di Gesù: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» ?
Quello che è dovuto a Dio e a Cesare concerne il «fine immediato» dei due poteri e costituisce l’ambito specifico d’azione di ciascuno: allo Stato spetta la «cura delle cose terrene» e alla Chiesa «la salvezza delle anime o il culto di Dio». Ma c’è un «fine comune» della società e degli individui, immensamente superiore in dignità al fine immediato, che è rintracciabile nella stessa dignità delle persone e che rappresenta «quel supremo ed ultimo bene al quale devono essere rivolti tutti i pensieri». Questo bene e fine comune è l’eterna beatitudine, cioè la «perfetta e completa felicità degli uomini». Quindi affrancamento dalle occupazione e dagli ambiti altrui non significa affrancamento dalla Signoria di Dio, causa diretta della felicità, che perdura immutata nella storia – compresa o ignorata – e alla quale è dovuto l’ossequio delle società e dei singoli. Una laicità siffatta, intesa come autonomia dei fini immediati, è non solo auspicabile, ma del tutto conforme alla volontà di Dio. Viceversa, la laicità come separazione dal fine ultimo del genere umano (il “laicismo”) non può che implodere su se stessa o, quanto meno, produrre generazioni d’infelici.

Laicismo e democrazia
Di «laicismo» e «dei suoi errori» parla Pio XI nella “Quas primas” . Il documento tratta estesamente della Regalità di Cristo, con molti spunti di riflessione ispirati alla “Immortale Dei” di Leone XIII. Il laicismo è definito da Pio XI «peste della nostra età» e consiste nel «negare l’impero di Cristo su tutte le genti» e altresì negare alla Chiesa il diritto di «ammaestrare» i popoli e «condurli alla eterna felicità». Il Papa è qui preoccupato per i «pessimi frutti» prodotti da «questo allontanamento da Cristo». Egli forse contempla ancora i milioni di morti della Prima guerra mondiale, innescata dai laicissimi governi dei nascenti stati liberali. E già Leone XIII scriveva sulla Regalità di Cristo quando il potere temporale della Chiesa era stato gravemente compromesso, dopo i fatti di Porta Pia (1870). Non si può sostenere, quindi, che tali pronunciamenti risentano del rassicurante clima di alleanza fra Trono e Altare.
Specialmente in Italia, invece, s’era imposto il clima del «non expedit» di Pio IX che non consentiva ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche dello Stato italiano. Solo nel 1919 Benedetto XV abrogò il «non expedit» e, indirettamente, favorì la nascita del Partito popolare italiano (Ppi), su iniziativa (tra gli altri) di don Luigi Sturzo. Certamente la Chiesa sostenne la prassi democratica quando, il Ppi prima e la Democrazia cristiana nel secondo dopoguerra, intesero ispirare e fondare la propria azione politica sui principi della Dottrina sociale della Chiesa. Ma tale prassi fu però anche ostacolata dal Magistero allorché fu usata come pretesto ideologico per la promozione del «democratismo silloniano», conosciuto anche come «cattolicesimo democratico».
Anche oggi, ci chiediamo dunque, non è che il montante “neo-centrismo” deve riproporre all’attenzione del cattolico Italiano l’antico adagio: Democrazia forse, democratismo no!


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