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L’Italia e gli investimenti esteri visti da Londra

Tra poche ore l’autista di una solerte compagnia privata mi accompagnerà all’aeroporto di Heathrow dopo una due giorni a Londra per definire i dettagli di alcuni progetti di investimento per il prossimo anno, precedentemente valutati per settimane con collaboratori e partners.

Prima di rientrare in Italia, con l’aiuto di una ordinatissima assistente, decido di mettere un po’ d’ordine tra le carte e ritrovo un report che mi è stato lasciato ieri sulla scrivania: il documento è un’analisi che riguarda gli investimenti esteri nel Belpaese redatto alcuni mesi fa. Leggendolo, scopro che ci assegna un primato del quale faremmo volentieri a meno e giustifica peraltro lo scetticismo diffuso che ho percepito negli ultimi tempi da queste parti ad investire nel nostro Paese.

In rapida sintesi, si evince che tra le maggiori economie industrializzate d’Europa, l’Italia è quella che invoglia meno gli investitori stranieri ad immettere capitali di rischio. Considerando i flussi netti (ovvero la differenza tra investimenti diretti e disinvestimenti) il Belpaese richiama ogni anno circa 24 miliardi di euro, meno della Spagna (37 miliardi), della Germania (43 miliardi), della Francia (61 miliardi) e – udite – circa un quinto dei 116 miliardi del Paese di Sua Maestà, la Gran Bretagna.

Il rapporto poi prosegue evidenziando e comparando i fattori di vantaggio competitivo e quelli di svantaggio che trascuro di indicare per ragioni di spazio e per amor di Patria. E’ utile però sottolineare come i primi siano imputabili a quello che possiamo definire come talento italiano, ovvero l’innata capacità di dei nostri imprenditori di saper cogliere in anticipo tendenze e stili che poi sanno trasferire e, in taluni casi, imporre come trend nel mondo: le famose eccellenze italiane.

Tra gli svantaggi, tutto ciò che è possibile includere nell’area farraginosa della burocratica pubblica amministrazione, del mercato del lavoro troppo rigido (a proposito, da queste parti non comprendono cosa si intenda per rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non esiste di fatto nemmeno una corretta traduzione…) infine, guarda caso, il regime fiscale al quale sono sottoposte le imprese.

E mentre penso al recente, sciagurato interventismo pubblico nella vicenda Alitalia ed alla confusione ed alle incognite che regnano ancora sulla legge di stabilità, squilla il telefono, un’ultima riunione prima di pranzo mi riporta alle faccende ordinarie. Mi attende tra qualche minuto un consiglio durante il quale l’amministratore delegato di una impresa italiana dovrà presentare al sottoscritto ed ai suoi soci anglosassoni il budget preventivo del prossimo anno, non sapendo ad oggi – fine novembre – cosa dovrà indicare alla voce imposte.

Immagino che la sola reazione dei pragmatici inglesi a quel tavolo non potrà essere che la classica, interlocutoria  e sconcertata esclamazione “Only in Italy” alla quale, mio malgrado e tristemente da italiano mi associo.

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