Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
La scorsa settimana il premier Enrico Letta è volato fino a Lipsia, città dell’Est germanico dove la Spd teneva il suo congresso. Nel programma elettorale, votato dagli elettori socialdemocratici lo scorso settembre, era contenuta anche una proposta, che potrebbe essere molto utile a riportare l’Eurozona oltre la «Schuldenkrise», cioè la crisi da spread che dal 2011 la tiene in fibrillazione, l’introduzione degli eurobond. Adesso che la stessa Spd sta negoziando con la coalizione Cdu/Csu di Angela Merkel il contratto di Grosse Koalition per i prossimi quattro anni, la speranza di molti leader della sinistra mediterranea europea è che il partito possa trovare la forza di rompere l’ortodossia di Berlino contraria a ogni forma di socializzazione dei debiti. Del resto, già alla fine del 2011 i vertici della Spd avevano pubblicamente manifestato la loro posizione di favore per le nuove obbligazioni europee e gli eurobond, seppure poco difesi, erano in chiaro nella piattaforma elettorale della campagna elettorale della Spd.
Invece a Lipsia i vertici del futuro partito di governo tedesco hanno fatto capire a Letta che nei prossimi quattro anni gli eurobond non faranno parte dell’agenda politica tedesca. Non saranno nel contratto di programma tra la Cdu e la Spd, per la semplice ragione che la maggioranza assoluta dei tedeschi è contraria a misure di socializzazione dei debiti e, quindi, anche agli eurobond. Ma anche perché Berlino è sempre più infastidita dai ritardi riformisti di Paesi come l’Italia che chiedono gli eurobond ma, poi, sanno riformare solo le pensioni. Anche il troppo timido governo Letta è visto con crescente scetticismo dal governo e dalla classe dirigente tedesca, perché rimane troppo incapace di affrontare le tematiche messe nero su bianco dalla lettera a doppia firma Trichet/Draghi recapitata al governo italiano pro tempore nell’estate del 2011. Il paradosso è l’Italia: dove il mercato del lavoro è stato perfino reso più rigido dalle riforme del governo Monti invece di allinearlo, come fatto da Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia, alle regole ritenute come opportune e corrette da parte di Francoforte e Bruxelles.
Così, mentre il viceministro all’Economia, Stefano Fassina, dichiara che non ci saranno nuove liberalizzazioni e privatizzazioni lasciando la traiettoria della politica economica italiana in una situazione di elevato rischio di attacco da parte della speculazione ai titoli di Stato, le speranze di avere una sponda più comprensiva a Berlino si spengono al ritmo dell’inutile dibattito domestico sull’Imu. Senza riforme vere e senza eurobond, il pil e lo spread italiani restano nella terra di nessuno con il rischio di trasformare l’Italia nel grande malato incurabile dell’euro.