È stato un susseguirsi di notizie, da giovedì 7 a sabato 9, circa l’evoluzione a Ginevra del secondo round di incontri tra i team negoziali dell’Iran e dei paesi del 5+1.
All’iniziale entusiasmo ha fatto seguito un più timoroso ottimismo, a tratti intervallato da battute d’arresto quando le parti coinvolte nel negoziato hanno iniziato a commentare la portata delle divergenze emerse e le strategie per superarle.
Alla fine l’accordo non è stato raggiunto, sebbene sino all’ultimo sia stata cercata una soluzione. Ma una cosa è certa; nessuno sembrava volersi alzare dal tavolo negoziale senza aver definito l’accordo, e nessuno è tornato a casa considerando un fallimento l’incontro di Ginevra.
L’ambito di manovra
Non è ancora emerso con chiarezza in quale ambito del negoziato siano sorte le difficoltà che l’hanno arrestato dopo un avvio alquanto promettente.
Da alcune indiscrezioni trapelate a margine degli incontri, tuttavia, sembrerebbe che uno dei nodi più difficili da scogliere sia stato quello della gestione dell’uranio già arricchito e disponibile negli stock iraniani. Ad una generica disponibilità iraniana per il trasferimento all’estero sotto custodia di una terza parte di reciproca fiducia, sarebbero sorte complicazioni nella definizione della modalità di gestione. E su quelle ci si sarebbe poi arenati.
Per quanto l’ottimismo abbia dominato la scena in queste ultime settimane, è necessario riconoscere tuttavia come il quadro complessivo del negoziato, per quanto estremamente positivo e promettente, sia ancora largamente dominato da oltre trent’anni di diffidenze e dalla reciproca incapacità di comprendere le esigenze della controparte.
È mutato invece – e radicalmente – il contesto in cui si muove il negoziato. Tutti sono alla ricerca di una soluzione, e lo hanno dimostrato inviando a Ginevra il vertice della propria diplomazia e il meglio delle proprie capacità negoziali.
Sono infatti arrivati in successione il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, il segretario di Stato Usa John Kerry, il ministro degli esteri francese Laurent Fabius e il suo omologo russo Sergei lavrov, dando chiaramente la portata dell’importanza attribuita al negoziato e, soprattutto, alla sua soluzione.
Alla fine l’accordo non c’è stato, purtroppo, ma tutti si sono alzati dal tavolo con la netta sensazione di aver fatto giganteschi passi avanti. Dandosi appuntamento a brevissima scadenza, il prossimo 20 novembre, per cercare di concludere lo storico accordo, ed avviare una nuova fase politica in Medio Oriente.
Chi è contrario, e perché
L’entusiasmo generale che accompagna la trattativa tra l’Iran e i paesi del 5+1 ha anche delle vistose eccezioni.
È del tutto insoddisfatto delle ipotesi di accordo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che vede nel riavvicinamento dell’Europa e degli Stati Uniti all’Iran non tanto il palesarsi di una minaccia strategica, quanto il crollo ideologico della sua politica di sicurezza regionale. Ma il pensiero del primo ministro non è condiviso da tutti a Tel Aviv, dove in molti settori – tra cui quello delle forze armate – si guarda con estrema soddisfazione all’evoluzione dei fatti di Ginevra.
Sono del tutto ostili ad ogni ipotesi di successo del negoziato, inoltre, sia i sauditi che gli Emirati Arabi Uniti, che vedono nella stabilità dei rapporti dell’Iran con l’occidente una minaccia esistenziale per la continuità del proprio ruolo politico e soprattutto dinastico, sulla spinta di sempre maggiori fermenti sociali. Fenomeni che i sovrani locali cercano di arrestare in ogni modo, accusando l’Iran di fomentarli.