Il comitato che ho l’onore di presiedere all’interno della Commissione esteri della Camera dei Deputati rappresenta un tentativo, dopo anni di distrazione colpevole, di rilanciare una riflessione ed un’iniziativa sull’Africa, sulle sue tragedie, sulle sue contraddizioni, sulle opportunità che si aprono sul terreno dello sviluppo sociale ed economico. Nell’ambito di questo cimento, abbiamo deciso di dare vita ad un’indagine conoscitiva sul Corno d’Africa, coinvolgendo operatori scientifici, agenzie umanitarie, centri studi: un lavoro che può essere utile per accendere i riflettori sulla regione.
L’Africa è il simbolo di una scommessa che va portata avanti fino in fondo: immaginarla come un moloch inamovibile, come il luogo in cui si misurano solo arretratezze sarebbe un grande errore politico. Per questo è utile questa riflessione. Come ebbe a dire il primo ministro britannico David Cameron due anni fa a Lagos: ” questo può essere il momento dell’Africa, che si sta trasformando in un modo che nessuno immaginava appena 20 anni fa”. La Somalia non è una monade. Non è lo stato fallito dentro una regione stabilizzata dove regnano pace e sicurezza.
La Somalia è l’epicentro di un contagio che coinvolge quel Grande Corno d’Africa che è il crocevia di conflitti di natura etnica, religiosa, economica.
Dentro questo quadro si inserisce il nostro focus su Al Sheebab, organizzazione molto più camaleontica e flessibile di quanto finora è stato descritto. Il movimento jihadista somalo incrocia forme moderne di comunicazione (internet e filmati) con una straordinaria capacità di interpretare la “guerra di movimento” in un contesto militare in continua evoluzione.
La scelta di internazionalizzare al Shebaab viene da lontano e affonda le sue radici dentro il difficile processo di risanamento regionale, prima ancora che nella capacità della Somalia di darsi una statualità.
Il Presidente della Repubblica somala, Hassan Sheikh Mohamud, appena un mese fa incontrando le Commissioni esteri riunite, aveva descritto la fatica di dare una forma di governo possibile alla situazione lacerata di un territorio provato fortemente da decenni di guerre.
La via federalista seppur interessante sul piano istituzionale appare ancora fragilissima sul piano politico. Così come l’impianto prevalentemente militare della stabilizzazione mostra limiti oggettivi.
L’Amisom – che coinvolge, tra gli altri, paesi come l’Uganda e il Kenya – non riuscirà mai a supplire l’assenza di una soluzione politica e civile alla crisi. La transizione o ha basi diplomatiche o semplicemente non ne ha.
La road map di uno sbocco efficace dal buco nero somalo passa attraverso la applicazione piena del National Security and Stabilization Plan (NSSP): sicurezza, riassetto costituzionale, riconciliazione politica, good governance, a partire dalla lotta alla corruzione.
Bisogna non anteporre in ogni caso il paradigma della sicurezza all’azione diplomatica e politica. Devono camminare parallelamente.
La scelta dell’embargo verso quei territori dove il controllo di Al Sheebab è forte, solido, capillare, può trasformarsi un fattore di consenso verso quelle reti terroristiche capaci nel corso degli anni a mimetizzarsi nel popolo, a condividerne le sofferenze, piegandole alle loro strategie di morte.
Gli aiuti al Corno d’Africa restano un terreno di iniziativa scivoloso: la carestia che lo ha colpito nel biennio scorso ha mostrato tutta l’inadeguatezza di un intervento che non essere strutturale. Talvolta invece va ad alimentare i tesori dei signori della guerra.
Finora purtroppo il lavoro delle agenzie è stato scarsamente supportato e ostacolato, non riuscendo ad offrire le risposte adeguate al dramma dei profughi e della popolazione civile. La diaspora somala ha numeri impressionanti e mette a rischio la tenuta sociale e civile degli attori regionali che li ospitano a partire dal Kenya.
La Somalia, inevitabilmente, per la contemporanea presenza nell’Amisom di paesi confinanti si è trasformato in un dei maggiori vettori politici del jihadismo subsahariano ed Al Sheebab è diventato una sorta di “Brand” del terrorismo in grado di dispiegarsi oltreconfine.
L’attentato del 21 settembre a Nairobi pone infatti domande inquietanti sulla capacità di penetrazione wahabita in tutto il Corno d’Africa, su quali siano i canali di finanziamento reale della guerriglia e su come funzionino i meccanismi di reclutamento dell’islamismo radicale, a partire dai luoghi infernali dei campi profughi, come Daabab in Kenya.
Occorre dunque che la politica riprenda a occuparsi del Corno d’Africa. E non solo ex post, quando accade un attentato piuttosto che un eccidio. La Somalia è la dimostrazione della fragilità di un Occidente che non capisce l’Africa, di una decolonizzazione incompleta, di una penetrazione economica e finanziaria che si limita solo allo sfruttamento delle risorse e non all’empowerment produttivo di quella regione. È ora di invertire la rotta.