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Perché è matto chi blatera di tagli robusti alla spesa pubblica

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E’ da troppo tempo ormai che tanti predicatori politici italiani hanno abbracciato la populistica teoria che i problemi italiani si riescano a risolvere principalmente con l’abbattimento della spesa pubblica. Andiamo però ad analizzare da vicino di come è composta la spesa pubblica, senza entrare nei particolari degli effetti macroeconomici (perché reputo scontati e arcinoti gli effetti moltiplicatori della spesa pubblica) per poter verificare se sia realmente possibile intervenire con l’intensità con cui ci viene professata.

Prima però vorrei ricordare che in qualsiasi bilancio dello Stato il fabbisogno finanziario viene reperito principalmente per mezzo della fiscalità e dalla monetizzazione, secondariamente dal taglio di spesa pubblica e in extrema-ratio dalla vendita di asset pubblici. Quest’ultimo argomento è stato recentemente trattato in modo esauriente dal sottoscritto, proprio su queste pagine, a risposta delle argomentazioni tanto care al duo bocconiano Alesina-Giavazzi per dimostrare che se si procedesse ora a cessioni di patrimonio oltre al danno subiremo anche la beffa.

Pertanto, avendo avuto la possibilità di visionare un documento della Commissione Bilancio del Senato, ho la possibilità tecnica di verificare puntualmente le varie voci che compongono la spesa pubblica annuale dello Stato italiano. Questo esercizio solamente per capire definitivamente se i tanti personaggi, che si riempiono la bocca quotidianamente con facili luoghi comuni, basano le loro argomentazioni su dati scientifici o se sono solamente attirati dal facile consenso che un argomento del genere suscita negli animi dei sempre più tartassati italiani.

Premesso che tra il 2008 e il 2014 (speriamo) si sono susseguite 4 manovre finanziarie (fra aumenti di tassazione e tagli) per complessivi 330 miliardi di euro (ricordo che la “famosa” manovra Amato del 92/93 rischia di passare per poca cosa visto che fu di 92.700 miliardi ma di lire, cioè circa 45 miliardi di euro) contribuendo che l’indebitamento netto scendesse dal 5,5% del 2009 al 4,5% del 2010, al 3,8% del 2011 e del 3,0% nel 2012 e nel 2013 (a fatica!)

Secondo le stime del DEF la spesa pubblica nel 2013 risulterà pari a 810,6 miliardi, che se epurate dal costo per il sostentamento del debito previste in 83,9 miliardi, faranno sì che le spese primarie si attesteranno a 726,7 miliardi. Queste spese nello specifico sono così ripartite:

#363,4 Mld per prestazioni sociali di cui 255,2 Mld in pensioni (la stragrande maggioranza sono sociali e non a 3 zeri!!!) e il resto per disoccupazione, cassa integrazione e i servizi sanitari in convenzione quali l’assistenza farmaceutica (vogliamo ancora aumentare i ticket?), quella ospedaliera e specialistica.

163,6 miliardi per la retribuzione dei dipendenti pubblici (fra l’altro congelate da anni).

E dal conto siamo arrivati a 200 Mld, di cui:

28 miliardi riguardano gli investimenti (pochini visto che singole multinazionali ne investono il corrispondente di 10 miliardi di euro/anno),

7,5 miliardi per il rimborso di debiti commerciali.

Con queste ulteriori due voci, la spesa primaria ancora da analizzare è arrivata a 165 miliardi da cui bisogna sottrarre 85 miliardi così distribuiti:

30 miliardi per il comparto sanitario (diverso dal sopracitato),

20 miliardi per le amministrazioni centrali,

33 miliardi per le amministrazioni locali

79 miliardi per altre spese, come le imposte pagate dalle pubbliche amministrazioni che costituiscono una partita di giro, i trasferimenti all’estero e gli aiuti internazionali stipulati e gli ammortamenti.

Quindi risulta che la possibilità di operare risparmi agendo sulla spesa pubblica appare ridotta a 5/10 miliardi di capitoli di spesa e non di tagli!

Molte delle spese sopra descritte rappresentano costi non comprimibili se non a costo di annullare il welfare e il neo Commissario di nomina governativa alla spending review, Cottarelli, avrà vita molto difficile nel riuscire a racimolare nelle pieghe del bilancio risorse che riescano a ribaltare le sorti finanziarie dell’Italia. La prova è che il machete del suo predecessore Bondi, poco è riuscito a fare, arresosi alla fine a trovare nel fondo del barile ben cosa!

Pertanto diamo il giusto credito ai predicatori della spesa pubblica, perché a volte confondono la parola tagli con razionalizzazione, che nella lingua italiana significa ben altra cosa! 

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