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Progettare il futuro dimenticando i numeri primi

“E’ meglio essere ottimisti ed avere torto che essere pessimisti ed avere ragione”
Albert Einstein

Riprendendo un titolo di successo, potremmo chiamarla la solitudine dei numeri primi. Uno, due, tre, cinque, sette, e via così all’infinito? No, non quei numeri primi, ma quelli che quotidianamente cantano gli aedi della crisi. I numeri primi della disoccupazione giovanile, delle imprese che falliscono, delle sofferenze delle banche, delle tasse che aumentano. Questi numeri primi.

Tutti numeri seri ed importanti che descrivono in modo tristemente sintetico lo scenario attuale ma non rendono per fortuna conto degli scenari futuri. Forse è proprio questo lo sforzo che dobbiamo fare per uscire veramente dalla crisi. Lo sforzo psicologico di guardare oltre, la necessità di cogliere le trasformazioni in atto e di affrontare per tempo le conseguenze dei profondi mutamenti strutturali che, in realtà, stanno già caratterizzando il quadro economico e sociale. Conseguenze in apparenza ancora lontane, ma che iniziano ad assumere risvolti da affrontare subito anche perché progettare il futuro per la nostra classe dirigente implica un doppio salto mortale.

Il primo è quello di pensare a lungo termine, quando i risultati non saranno necessariamente goduti da chi ha intrapreso azioni di sviluppo di nuova élite intellettuale e politica; il secondo è quello di accettare di lavorare per la propria stessa potenziale sostituzione, valorizzando l’interesse generale contro il proprio interesse particolare (personale, di ceto, di partito, di coalizione, di categoria, di cordata aziendale, eccetera).

Difficile anche solo da pensare se guardiamo alla storia italiana degli ultimi decenni. D’altra parte, gli anni della crisi sono stati anni complessi a tutti i livelli. Un periodo in cui il nostro Paese ha sviluppato un’ulteriore tendenza all’individualismo, sfuggendo alle dimensioni di riaggregazione collettiva per sviluppare invece una forte dimensione di risoluzione individuale dei problemi e delle “paure” micro di ognuno di noi. Questa tendenza si è andata accentuando, non solo per l’enfasi che i mezzi di comunicazione hanno messo su queste paure, quanto sulla tipologia di risposta che la politica e, di conseguenza, le Istituzioni hanno dato.

Alla domanda di maggiore sicurezza in senso lato del Paese, la risposta emergenziale è stata quella di un sistema fatto di copertura puntuale delle paure, di risoluzione dei tanti problemi uno per uno, molte volte accontentando, molte altre scontentando. Una risposta utile certamente a soddisfare una pur importante dimensione micro ma che non “rassoda” la società, non la lega, non contribuisce a fare progetto insieme. Un insieme di solitudini come quelle dei singoli numeri primi…

Una visione di corto respiro. Tocqueville, in “La democrazia in America”, descriveva il sistema di valorizzazione democratica del mercato e dei processi di valutazione degli Stati Uniti e, nel contempo, la sua forte identità generata da un simbolo: l’orgoglio di appartenenza. E invece, se analizziamo il quadro che emerge dal sistema dei media, possiamo constatare come i nostri migliori punti di forza vengano abbandonati giorno dopo giorno, mentre vengono premiati i nostri difetti attraverso la narrazione dei numeri primi della crisi. Ma evitiamo gli equivoci: la colpa è nostra e non dei media i quali non fanno altro che rappresentare magari enfaticamente solo quello che pensiamo di essere e quello che vogliamo leggere e sentire. Come dire: mal comune, mezzo gaudio.

Tutto questo è particolarmente doloroso perché, invece, sono tanti i punti di forza dell’Italia. Possediamo un patrimonio culturale, scientifico e geografico totalmente sottovalutato. Eppure un italiano che parla del proprio Paese è spesso imbarazzato perché l’immagine è quella dell’economia che affonda, della politica immobile e della mancanza di opportunità. Si dimenticano tante cose. Si dimentica che la nostra cucina è imitata in tutto il mondo e che le menti più brillanti mai esistite spesso hanno mangiato pasta fatta nelle nostre case. L’Italia merita di non essere abbandonata a se stessa. Ha ancora in sé molte potenzialità per tornare a splendere. Dimenticando la solitudine della crisi e dei numeri primi.

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