Alla vigilia del Summit G8 a San Pietroburgo del luglio 2006 un acuto e informato osservatore della realtà russa, Dmitri Trenin, scriveva per la rivista Foreign Affairs un articolo dal titolo “Russia leaves the west”. In esso sosteneva che, nonostante l’allargamento del G7 alla Russia, che peraltro si accingeva a presiederne l’edizione a otto di quell’anno, Mosca si stava allontanando progressivamente dall’Occidente per effetto del percepito sostanziale diniego di quest’ultimo, sintetizziamo noi, a riconoscerle quella parità rimasta la sua aspirazione costante nei confronti dell’Europa occidentale e poi degli Stati Uniti fin dal XXVIII secolo.
LA SCOMMESSA “BRICS”
L’esito della riunione di San Pietroburgo non entusiasmava certo Putin specialmente sulle questioni energetiche, e a questo passaggio faceva seguito l’avvio dell’iniziativa diplomatica della Russia volta a trasformare in una realtà politica l’acronimo Brics, coniato nel 2001 da Robert O’Neal, analista finanziario della Goldman Sachs. Nel settembre del 2006 in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, che vedeva a New York i ministri degli Esteri di gran parte degli Stati membri dell’organizzazione, il ministro degli Esteri russo, Serghej Lavrov, dopo la tradizionale consultazione con i suoi colleghi cinese e indiano invitava a un ulteriore confronto anche il ministro degli Esteri brasiliano. Si avviava così una prassi di consultazioni a quattro fra i Paesi, le iniziali dei cui nomi erano appunto Bric; così come i quattro erano stati definiti da O’Neal, che in essi aveva voluto vedere un gruppo omogeneo in ragione delle affinità derivanti dalla dinamica del loro sviluppo economico. Sempre su iniziativa russa, si passava gradualmente da incontri a latere di conferenze internazionali più ampie a una prima riunione ad hoc dei ministri degli Esteri a Yekaterinburg nell’aprile del 2008, e quindi alla regolare tenuta di summit annuali, al livello dei capi di Stato, convocati successivamente prima di nuovo in Russia (ancora a Yekaterinburg) e poi negli altri Paesi membri del gruppo, ampliatosi nel 2011 per comprendere anche il Sudafrica. Al termine dei successivi incontri, inizialmente veniva pubblicato un comunicato finale, quindi una più solenne dichiarazione, sostanziata di proposte e suggerimenti relativi ai problemi più acuti della finanza, dell’economia, ma anche della sicurezza internazionale.
LE RICHIESTE DEGLI EMERGENTI
Alla dichiarazione ben presto si aggiungeva un piano d’azione volto ad intensificare la cooperazione, i contatti e gli scambi fra i membri del format non solo al livello delle rispettive amministrazioni, ma anche di significativi settori delle società civili. L’obiettivo di fondo dei quattro veniva enunciato fin dalla prima riunione dei ministri degli Esteri di Yekaterinburg nel 2008: era la “costruzione di un sistema internazionale più democratico fondato sul dominio del diritto e della diplomazia multilaterale”. La richiesta più immediata: una riforma del sistema monetario internazionale che riequilibrasse il peso dei mercati emergenti in seno ai suoi organi decisionali. Ma era l’Onu che veniva indicato come l’organismo che avrebbe dovuto svolgere la funzione centrale nell’attuazione del disegno globale e, fin da questa prima presa di posizione, ne veniva sollecitata una riforma che lo rendesse più efficiente, auspicando nel contempo un rafforzamento del ruolo che vi potevano svolgere il Brasile e l’India.
DIVERGENZE DI INTERPRETAZIONE
A ben vedere dunque non si produceva un reale abbandono dell’ovest, come ipotizzato nell’articolo di Foreign Affairs menzionato all’inizio di queste riflessioni, quanto meno in merito ai principi, se consideriamo che nel Concetto strategico della Nato l’Onu viene indicato come la prima delle partnership dell’alleanza nell’impegno per la soluzione delle crisi internazionali. Quello che talvolta si pone nei dissensi fra la Russia e i suoi partner da un lato e l’Occidente dall’altro, è quindi più un problema di interpretazione dei principi stessi che di divergenze sostanziali sui motivi ispiratori di fondo delle politiche da adottarsi. I Brics tenevano cinque successivi summit con cadenza annuale in ognuno dei Paesi membri approvando ogni volta una dichiarazione finale riecheggiante ogni anno quanto affermato a Yekaterinburg nel 2008 sul sistema monetario internazionale, sul ruolo dell’Onu e sul rispetto del diritto di cui si invocava l’osservanza anche nella lotta al terrorismo. Venivano poi menzionate una per una le crisi internazionali più gravi per sollecitarne soluzioni diplomatiche, che evitassero il ricorso alla forza. Nel marzo del 2011 i Bric sedevano tutti e quattro nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e adottavano lo stesso atteggiamento di astensione di fronte alla proposta occidentale di creare una no fly zone sulla Libia in preda al conflitto fra il regime di Gheddafi e i suoi oppositori, dichiaratamente filo-occidentali. Vicenda questa in sé considerata poi positivamente nel successivo summit di Sanya, in Cina, come segno della solidità dell’intesa esistente nel gruppo e prodromo di un’ulteriore futura collaborazione, anche se con decise riserve sulla condotta e sull’esito dell’operazione, pur avviata con il consenso dell’Onu.
UNA VISIONE POLITICA
Emergeva così sempre più evidente la ratio alla base del gruppo, una omogeneità di visione politica trascendente le affinità delle rispettive dinamiche economiche, peraltro progressivamente affievolitesi. Nel corso della recente “crisi siriana” l’insistenza di Putin sull’imprescindibilità dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza per la legittimazione dell’uso della forza nelle crisi internazionali era in piena coerenza con questa visione politica. Pur orientata a evitare una contrapposizione frontale con l’Occidente, come è evidente per l’assenza di qualsiasi riferimento alla crisi siriana nel comunicato finale del summit Brics tenutosi a latere del G20 di quegli stessi giorni di settembre benché gli altri quattro presidenti propendessero per la tesi russa. Segno questo della volontà di evitare che tutto il gruppo apparisse frontalmente schierato contro gli Stati Uniti.
Tratto dal numero di Formiche di ottobre 2013 (n. 85)