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A Roma non tornano i conti neppure su delicate questioni urbanistiche

Le cronache dei giornali, specialmente quelli romani, ci aggiornano da settimane sui problemi di bilancio di Roma Capitale e in particolare sulle misure intraprese dalla giunta di Ignazio Marino per reperire le risorse necessarie a chiudere, in parità, la partita tra entrate e uscite, e ad approvare il bilancio previsionale in tempo utile per evitare lo scioglimento anticipato del Consiglio e il commissariamento del Comune.

Ora con l’aiuto del governo, che ha adottato un decreto che consente di spostare una parte degli 800 milioni di euro senza copertura nella gestione commissariale dei debiti accumulati dal comune di Roma fino al 2008, la giunta Marino riuscirà a chiudere il bilancio ricorrendo alla solita ricetta fatta di tagli e di inasprimenti fiscali. Ma a Roma non è in rosso solo il bilancio, non tornano i conti anche su delicate questioni urbanistiche come quella che riguarda la dotazione di aree per il verde e le attrezzature pubbliche.

L’economista americano Glaeser dice che “le città non sono delle strutture, le città sono delle persone”, e dunque sono anche quell’insieme di bisogni per soddisfare i quali le persone stesse scelgono di abitare insieme e di condividere l’uso di un determinato spazio fisico. Se la città di Roma sono le persone che la abitano, e dunque anche le loro domande (di spazi per la mobilità, per il tempo libero, per l’istruzione, per la salute, e di aree verdi libere dall’urbanizzazione), alla discussione sul bilancio manca un numero importante: 66.893.715 di metri quadri (ovvero 6.689 ettari). Si tratta delle aree che il Comune, al momento dell’approvazione del Piano Regolatore Generale nel 2008, ha riservato, per la sistemazione del verde pubblico, per la dotazione di parcheggi e per la realizzazione dei servizi pubblici, classificandole come “aree pubbliche”, e destinandole ad essere espropriate ai fini della successiva trasformazione per le finalità pubbliche richiamate, e della loro definitiva acquisizione al patrimonio comunale.

A questo numero, relativo alle aree per il verde e i servizi pubblici di livello locale, da acquisire in aggiunta a quelle allora esistenti – non più aggiornato dal 2008 ad oggi – si deve aggiungere il dato relativo alle aree da destinare ai servizi e al verde di livello urbano che nel 2008 veniva quantificato, in funzione di una popolazione teorica di circa 3 milioni e 400 mila abitanti, in 59.540.835 di mq (5.945 ettari).

Su queste aree – il cui dimensionamento complessivo dipende dal numero di abitanti di una città e dunque sarebbe dovuto essere aggiornato in questi cinque anni anche in relazione alle operazioni urbanistiche condotte dalla giunta Alemanno – il Piano Regolatore, contestualmente alla sua approvazione nel febbraio del 2008, ha posto un vincolo preordinato all’espropriazione, che per espressa previsione normativa ha un’efficacia di cinque anni ormai trascorsi, e dunque è scaduto da alcuni mesi.

Il Comune di Roma ha avuto cinque anni per poter procedere all’approvazione dei progetti e per adibire agli usi pubblici previsti le aree vincolate. Ad oggi – decorsi cinque anni dall’approvazione del Piano Regolatore – le aree pubbliche, non ancora acquisite per finalità pubbliche dal Comune, sono sottoposte al regime giuridico di salvaguardia dettato dall’articolo 9 del Testo unico dell’edilizia che, pur impedendo o almeno riducendo i rischi di utilizzo delle stesse aree per finalità edificatorie che non siano pubbliche o di pubblica utilità, non consente la loro acquisizione e funzionalizzazione pubblica, se non attraverso una reiterazione onerosa del vincolo nel frattempo decaduto.

In altre parole, il Comune – ove intenda procedere ad acquisire una delle aree individuate dal PRG per realizzarvi, per esempio, una scuola – deve reiterare quel vincolo; il che significa, in base a quanto previsto dall’articolo 39 del Testo Unico in materia di espropriazioni, riconoscere al proprietario di quell’area un’indennità commisurata all’entità del danno prodotto dall’Amministrazione a causa della sua “inerzia”.

In alternativa, l’amministrazione potrà provvedere a una reiterazione, in blocco, dei vincoli preordinati all’esproprio su quei circa 12 mila ettari, che probabilmente dovranno essere integrati con le aree necessarie a soddisfare una domanda di aree per il verde pubblico, i parcheggi e i servizi pubblici di livello locale e urbano che ovviamente dal 2008 ad oggi è cambiata, probabilmente in aumento.

Anche nel caso di una reiterazione generalizzata dei vincoli preordinati all’espropriazione, la questione dell’indennizzo da riconoscere ai proprietari delle aree si porrebbe in termini anche più rilevanti vista l’entità e la rilevanza delle aree per quali prevedere l’indennizzo.

Per un orientamento, non univoco, della magistratura amministrativa, una delibera di variante al Piano Regolatore Generale, con la quale si procederebbe a vincolare, di nuovo, le aree pubbliche, individuate nel 2008, dovrebbe prevedere un indennizzo in favore dei proprietari delle aree interessate, e assumere un impegno di spesa per la relativa successiva liquidazione.

In diversi casi, infatti, i giudici amministrativi hanno giudicato annullabili varianti urbanistiche generali che contenevano la reiterazione generalizzata dei vincoli, senza l’assunzione di impegni relativi all’indennizzo dei proprietari delle aree interessate dalla reiterazione.
Nell’ottica di una contabilità necessariamente integrata, dunque, Roma non deve fare i conti soltanto con i circa 800 milioni di euro, di cui si parla molto in queste settimane, ma anche con le risorse e gli strumenti, non solo finanziari, necessari a mettere a disposizione dei cittadini (almeno) quei 12 mila ettari circa (intorno al 10% del territorio comunale) che il Piano Regolatore ha riservato per assicurare le indispensabili dotazioni pubbliche di verde e servizi pubblici.

È necessario che si parli anche di questo, e che si ragioni sul modo attraverso il quale rispondere alla domanda di quel complesso di beni e servizi indivisibili, per godere dei quali i romani con-vivono, e sopportano anche i costi della condivisione di uno spazio fisico, pieno di bellezza e di storia, ed anche per questo particolarmente difficile da abitare.

Per far questo, prima di tutto, bisogna aggiornare il dato relativo alla domanda. Bisogna sapere quante aree pubbliche occorrono oggi, e avere una relazione sull’effettivo stato di quelle individuate dal Piano Regolatore vigente, a cinque anni dalla loro destinazione ad usi pubblici. E poi bisogna ragionare sui modi attraverso i quali poter soddisfare questa domanda, a partire da quelli che l’ordinamento mette a disposizione, senza aspettare, anche su questo terreno, ben più improbabili aiuti dall’esterno.

Ci sono le norme tecniche del Piano Regolatore che contengono uno strumento giuridico, come la cessione compensativa, che è alternativa all’espropriazione soltanto perché prevede, quale “prezzo” per la cessione dell’area, non la liquidazione di una somma in denaro (l’indennità di espropriazione), ma il riconoscimento di diritti edificatori che il proprietario dell’area può utilizzare su una porzione della stessa area ovvero su un’area edificabile della quale ha la disponibilità.

Si tratta, in ogni caso, di uno strumento finalizzato all’acquisizione pubblica delle aree, in passato non utilizzato e sperimentato adeguatamente. In alternativa agli strumenti – tradizionali o innovativi che siano – comunque, finalizzati all’acquisizione e alla gestione pubblica delle aree, si può guardare alla normativa statale in materia di appalti e contratti pubblici. Il Codice dei contratti prevede, tra le varie forme di partenariato pubblico/privato, i cosiddetti contratti di disponibilità con i quali possono essere messi a disposizione dell’Amministrazione Pubblica (e dunque nel caso di specie dei cittadini romani) attrezzature e servizi realizzati su beni che restano di proprietà privata.

Si tratta, in altri termini, di un contratto, a titolo oneroso, con il quale l’Amministrazione non acquisisce la proprietà dell’area sulla quale successivamente deve realizzare un attrezzatura o gestire un servizio, ma paga, per un tempo predefinito, la “disponibilità” di quella stessa attrezzatura.

Le soluzioni sono diverse e si prestano, in ogni caso, a critiche e valutazioni. Ma quello che conta, è misurarsi con la questione delle dotazioni pubbliche della città, e ragionare anche sulle risorse che occorrono per “mettere in comune” beni privati, sperimentando pratiche sociali e istituzionali rispettose sia dell’esigenza di dotare la città delle necessarie attrezzature, sia gli obblighi “costituzionali” di trattare il diritto di proprietà in conformità con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e con la giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’Uomo.

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