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Singapore è il luogo più sexy dove fare business, ma…

Singapore è il miglior luogo al mondo in cui fare business. Per l’ottavo anno consecutivo la città-Stato ha mantenuto il primato nell’indice stilato dalla Banca mondiale sugli ambienti d’affari e i regolamenti più favorevoli.

Completano le prime tre posizioni Hong Kong e la Nuova Zelanda, mentre sesta si è piazzata la Malaysia, altro Paese del Sudest asiatico che accorcia la distanza dalla città del leone.
Per avviare un’impresa servono in media appena tre giorni, ben al di sotto della media Ocse di cinque e sotto i 30 giorni richiesti nell’intera regione asiatica. Altri punti a favore della città-Stato sono il sistema snello per le tasse, un sistema legale “business friendly” e una politica flessibile sull’immigrazione.

Sull’onda del crescente malcontento dei singaporiani verso gli espatriati, la città rischia però di diventare “un po’ meno aperta”, come titolava a inizio ottobre l’Asia Times Online. La ragione è nel Fair Consideration Framework, ossia la nuova regolamentazione del mercato che di fatto impone di considerare prima i singaporiani rispetto agli stranieri quando si tratta di assunzioni e promozioni.

In caso di ricerca di personale, l’annuncio deve essere pubblicizzato prima su una banca dati del governo, che sarà istituita entro la metà del prossimo anno. Soltanto dopo 14 giorni sarà permesso presentare la domanda per assumere uno straniero. Inoltre sarà alzato il salario minimo per gli stranieri (oggi 2.400 dollari), in modo da non giocare al ribasso con cifre che i singaporiani non sarebbero disposti ad accettare.

In realtà le norme sono state presentate come un modo per evitare forme di discriminazione nelle offerte di lavoro, fossero di genere, età, nazionalità (a sfavore dei singaporiani).
Il nuovo regolamento riguarda in particolare lavori qualificati, spesso nel terziario. Si parla di professionisti, manager, dirigenti, tecnici. Secondo le stime del ministero entro il 2030 saranno 1,2 milioni i singaporiani impiegati in queste professioni, contro gli attuali 850mila. E come ricorda l’Asia Times, sono proprio questi i settori in cui maggiore sarà la competizione tra colletti bianchi locali e stranieri.

Singapore continua quindi con la campagna per ridurre la dipendenza dalla forza lavoro straniera, ricordava Bloomberg a settembre, dopo anni di apertura all’immigrazione per controbilanciare il calo delle nascite, costata tuttavia al Partito d’azione popolare – che domina la politica del Paese fin dall’indipendenza – l’ostilità dei cittadini che imputano agli stranieri la crescente competizione nel mercato del lavoro e l’aumento dei prezzi immobiliari.

Sul piano elettorale il malcontento popolare si è tradotto con il voto del 2011 nel peggior risultato per il Pap in decenni e almeno tre manifestazioni per contestare la nuova politica demografica che prevede l’aumento della popolazione di un terzo entro il 2030, toccando quota 6,9 milioni.

Di questi buona parte saranno stranieri, anche perché gli incentivi e le misure per favorire la natalità avranno risultati soltanto nel lungo termine. L’ultima protesta in ordine di tempo dopo quelle di febbraio e maggio è stata a ottobre. La meno partecipata ma comunque un segno nella città-Stato in cui il governo promette ricchezza e pulizia in cambio di ordine e stabilità.

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