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Afghanistan, modi e tempi della transizione che cambierà il Paese

Trascorsi dodici anni di conflitto, l’Afghanistan sta per entrare nei dodici mesi che segneranno quella è chiamata inteqal, la transizione. Il 2014 sarà l’anno delle elezioni presidenziali, previste per aprile. Sarà anche l’anno in cui si completerà il ritiro delle truppe combattenti del contingente Nato-Isaf. Ieri è stato il turno dell’Australia di chiudere la principale base nel Paese. Nelle stesse ore il primo ministro britannico David Cameron, in visita alla base di Camp Bastion nella provincia dell’Helmand, parlava di missione completata e del raggiungimento degli obiettivi fissati dal mandato delle Nazioni Unite.

IN PIENA TRANSIZIONE
Il Paese è già nel pieno della transizione che segna il passaggio progressivo della sicurezza alle forze afgane e si dirama in altri ambiti da quello finanziario a quello amministrativo, da quello politico a quello fiscale. Giuliano Battiston, ricercatore e giornalista, ha trascorso quasi cinque mesi di lavoro sul campo in sette province afgane (Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar)) per capire come gli afgani stessi stiano “Aspettando il 2014”, per usare il titolo della ricerca presentata ieri al ministero degli Esteri. Sottotitolo: la società civile afgana su pace, giustizia e riconciliazione. L’indagine fa parte di un più ampio progetto promosso da Arcs e dalla rete della società civile Afgana, in partenariato con Oxfam Italia, Nexus, Aidos, Cgil e Arci, cofinanziato dalla Dgcs del ministero.

UNA FASE DELICATA
Gli intervistati, puntualizza l’autore, sono tutti rappresentati delle aree urbane. La difficoltà a raggiungere le aree rurali dovrebbe in qualche modo essere già un primo segno della situazione sul campo. “L’Afghanistan si muove in una delle fasi più delicate della propria storia recente. Si rischia di ripetere gli errori del passato, sia del governo, sia della comunità internazionale, sia della società civile stessa”, ha spiegato Battiston.

LA PAURA DELL’ABBANDONO
La preoccupazione principale è quella di essere abbandonati, come già di fatto avvenne alla fine dell”occupazione sovietica. In questo contesto assume importanza la firma di Karzai, o di un altro rappresentante del governo, dell’accordo bilaterale con Washington sulla sicurezza, cui sono legati sia la permanenza di truppe Usa, e Nato, anche dopo il 2014 sia i finanziamenti, attualmente alla base dell’economia afgana.

IL RUOLO DEL PAESE
Guardando al passato e al presente le cause del conflitto in corso sono viste come una combinazione di fattore esterni e interni. L’Afghanistan è visto come coinvolto nuovamente in un Grande Gioco, come fu nel corso dell’Ottocento tra l’impero russo e la corona britannica.

UNA COLLOCAZIONE STRATEGICA
La ragione è la sua collocazione strategica. I Paesi cui sono imputate le maggiori responsabilità sono l’Iran e soprattutto il Pakistan, che alimenterebbero il conflitto per i propri interessi. Ma non mancano sospetti anche sui Paesi della coalizione internazionale “considerati attori disposti a sostenere gli insorti, pur di perseguire i propri interessi strategici”.

LA SFIDUCIA NEL GOVERNO
Tra i fattori interni, spicca la sfiducia diffusa verso il governo, considerato corrotto e illegittimo. Non a caso durante la presentazione è stata sottolineata più volte la necessità che il voto di aprile si tenga e sia quanto più regolare. Non ci si attende la Svizzera, è stato uno dei commenti, ma per lo meno che non ci siano palesi situazioni di irregolarità come nella passata tornata e che gli sconfitti riconoscano la legittimità del vincitore.

SENSO DI INGIUSTIZIA
La ricerca evidenzia un “diffuso senso di ingiustizia”, cui ha contribuito anche il sostegno della comunità internazionale ai vecchi signori della guerra. “Pace e giustizia sono percepite come aspirazioni complementari”. Come scrive Battiston, “si ritiene che ignorare le richieste di giustizia per i crimini passati e presenti indebolisca un eventuale accordo di pace”. La riconciliazione, è opinione diffusa, passa per il riconoscimento della verità storica.
Si parla di “transitional justice”, ma con la convinzione che il Paese abbia perso un occasione dopo il rovesciamento del regime talebano e ora la si considera un obiettivo irraggiungibile, per le dinamiche locali, la cultura dell’impunità e la mancanza di volontà politica.

IL BISOGNO DI UN NEGOZIATO
La riconciliazione passa anche per il negoziato con i talebani. Come per il governo anche i turbanti neri non godono di buona stampa. Il dialogo è sostenuto in linea di principio, ma criticato per i metodi con cui è stato portato avanti. Ci sono scarse aspettative per la mancanza di un mediatore giudicato adeguato. Come tale non è riconosciuto l’Alto consiglio per la pace. C’è inoltre richiesta affinché il negoziato avvenga in trasparenza e con chiarezza.
“Parlare di negoziato vuole però dire condividere il potere”, continua l’autore. Perciò si registra la tendenza a giudicare accettabile l’ipotesi che i talebani possano assumere ruoli di potere in un governo di “ampia coalizione”. Si parla di talebani afgani, non di quelli considerati diretti dall’estero.

UN DOPPIO APPROCCIO
Il ruolo politico dei talebani pesa tuttavia il timore che questo possa pregiudicare l’architettura istituzionale del post-2001 e le conquiste legislative e sociali. La maggior parte degli intervistati guarda alla pace da un doppio approccio: politico di fine del conflitto nel breve periodo e sociale nel lungo periodo, per ricostruire “la fiducia tra le comunità”.


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