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Appello ai partiti: ci dite come uscire dalla gabbia dell’euro-rigore?

Siamo stretti nella morsa del debito pubblico e delle politiche europee di stabilità fiscale, ma le proposte dei due partiti tradizionali non cambiano e quelle dei “nuovi” partiti oscillano tra la punizione da dare agli italiani per gli errori del passato, accettando il commissariamento europeo, e quella da dare all’Europa per gli errori del presente, abbandonando l’euro. La sinistra non riesce a disfarsi dell’idea che lo sviluppo si ottenga redistribuendo il reddito e, conscia che i redditi da redistribuire sono prosciugati, indirizzano le voglie sulla ricchezza. La destra che anela allo stesso sviluppo, non sa dire come ottenerlo, chiedendo di ridurre la pressione fiscale, conscia che non ci sono le risorse per farlo se non si taglia la spesa pubblica. Le idee chiare, ma sbagliate della prima, si contrappongono alle idee poco chiare, ma giuste, della seconda. Tutti i partiti sanno bene che così non si può andare avanti, ma non sanno come invertire la rotta. La maggioranza è ancora dominata dagli europeisti a oltranza che sono disposti a rinunciare alla residua sovranità nazionale per sopravvivere, con la certezza della rinunzia e l’incertezza della sopravvivenza, almeno tenendo conto della volontà dei Paesi che controllano le scelte dell’Unione europea.

Il debito pubblico non si può ridurre né propiziando avanzi di bilancio, perché le conseguenze sulla disoccupazione sarebbero drammatiche, né cedendo pezzetti di patrimonio pubblico che finiscono con alimentare spese correnti o detassazioni lasciando aperto il problema del rimborso del debito e del rilancio dello sviluppo.

Solo una grande operazione finanziaria di conversione dei titoli pubblici in quote del patrimonio pubblico – secondo progetti già noti – può convincere il mercato internazionale che lo Stato italiano onorerà il proprio debito, sbocco che considera tuttora improbabile, come testimonia la minaccia rivolta a una primaria società assicurativa di ridurre il rating «perché possiede troppi titoli pubblici». Il fatto che lo spread si riduca non è un indicatore di ripresa di fiducia, ma è causa dell’abbondante liquidità che si dirige verso i titoli pubblici perché rendono bene; se la politica monetaria dei Paesi leader si invertisse (il tapering di cui si parla), la situazione del nostro debito pubblico potrebbe precipitare. Una tassa patrimoniale, ancorché risolvere il problema, darebbe il colpo di grazia alle speranze di rimborso del debito e di una ripresa produttiva, perché accelererebbe le vendite dei titoli e di immobili e la fuga di capitali. Colpirebbe inoltre il ceto medio risparmiatore, quello che, avendo capito che il sistema pensionistico non avrebbe potuto reggere, ha provveduto per tempo ad accumulare ricchezza, ossia un fondo pensioni integrativo.

Oggi le pensioni che vengono considerate “ricche” non solo vengono tassate e non rivalutate senza tenere conto se i beneficiari abbiano versato o meno il capitale sufficiente, ma viene tassata e minacciata di tassare ancor più la ricchezza che è stata accumulata assolvendo agli obblighi tributari; e non si vede un Einaudi che prenda le difese di questo ceto responsabile. Nell’ignavia dell’Unione europea sui modi in cui si raggiunge la disciplina fiscale, purché la si raggiunga, lo scontro destra-sinistra avverrà su questo punto cruciale del meccanismo di aggiustamento, illudendo i disoccupati di avere così un lavoro, gli occupati di difendere il loro livello di benessere e i rentier non speculatori di poter continuare a vivere decentemente nel corso della loro quiescenza. La stabilità fiscale ottenuta con l’aumento delle tasse ha ben poco da spartire con le necessità dello sviluppo di far crescere gli investimenti per aumentare la produttività e di rilanciare il credito alla produzione, in particolare nel settore delle costruzioni, finché la disoccupazione si riduce ai livelli (ad esempio) stabiliti dagli Stati Uniti.

Tutto ciò non solo auspicando di farlo, come quotidianamente si sente e si legge, ma indicando quali sono gli strumenti che otterrebbero il consenso europeo. L’Italia ha bisogno di un piano per rilanciare l’innovazione, ancorando l’alleggerimento della sgravio fiscale a questo obiettivo e non ai consumi interni; di un trattamento regolamentare controllato, ma meno gravoso dell’attuale, per le banche che concedono credito all’economia finalizzato allo scopa di un’interpretazione dei vincoli fiscali coerenti con il dettato di Maastricht, che prevede il superamento del parametro del 3% là dove promuove uno sviluppo che consenta di rientrare nel parametro alla ripresa del ciclo. Ha inoltre bisogno di attuare il piano di infrastrutturazione europea preparato da Van Miert, finanziato con la garanzia dell’Unione. Ultimo, ma non il minore, l’attribuzione alla Bce del compito di intervenire sul cambio per impedire che il valore esterno dell’euro venga fissato dai comportamenti monetari degli Stati Uniti o dalle conversioni di riserve ufficiali in dollari, come quelle attuate dalla Cina e altri importanti Paesi, che hanno effetti negativi sulle esportazioni e, di conseguenza, sulla crescita europea. Quando leggeremo queste cose nei programmi dei partiti?



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