1- LA COSTITUZIONE E L’OBBLIGO PROGRAMMATICO, INDECLINABILE, DI TUTELA DEL RISPARMIO COME COROLLARIO DEL PRINCIPIO REDISTRIBUTIVO DELLA TUTELA DEL LAVORO.
L’avanzamento della trattativa sulla c.d. “Unione bancaria” impone alcune precisazioni di tipo sia economico che costituzionale.
Cominciamo a inquadrare la materia sul piano costituzionale.
Cercherò di farla semplice, ma semplice non è…più: e ciò a causa del violento sovrapporsi di 30 anni di teoria e pratica del “vincolo esterno” alle chiare enunciazioni del Costituente.
L’articolo 47, primo comma, infatti stabilisce il principio secondo cui “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio, in tutte le sue forme, disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. In questa enunciazione viene racchiuso il valore prioritario, sul piano economico e sociale, attribuito dalla Costituzione al risparmio: infatti, sebbene ciò appaia attualmente caduto in un inspiegabile “oblio”, la Repubblica si impegna a tutelarlo “in tutte le sue forme”, vale a dire in tutti i modi possibili affinché la parte non consumata del reddito – chè tale è il risparmio-, da parte dei cittadini, produca a sua volta nuova ricchezza.
Al secondo comma, l’art.47 recita “Favorisce (sempre la “Repubblica”, ndr) l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
Va subito precisato che per “Repubblica” in questo caso (come generalmente all’interno della stessa Costituzione) si intende l’insieme degli organi costituzionali di governo, democraticamente rappresentativi e strumento della sovranità popolare (art.1 Cost.): in primis Parlamento e Governo.
Sono essi coloro che sono chiamati a prestare la “tutela” del “risparmio in tutte le sue forme” esattamente nel senso utilizzato dall’art.4 Cost. nel parlare di “diritto al lavoro”, che la “Repubblica riconosce a tutti i cittadini”, tanto che la stessa (cioè quantomeno il Governo-Parlamento), “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Il plesso Governo-Parlamento, assume perciò, unitamente al complesso delle altre istituzioni democraticamente responsabili, riassuntive del concetto costituzionale di “Repubblica”, – di fronte al popolo sovrano costituitosi in corpo elettorale- un obbligo indeclinabile sia a garantire, con priorità assoluta, l’effettività del diritto al lavoro (mediante opportune politiche monetarie fiscali, industriali e, naturalmente “giuslavoristi che”), sia la connessa tutela del risparmio.
Se questa tutela, infatti, è apprestata “in tutte le sue forme” e, segnatamente, per favorire l’accesso del “risparmio popolare” alle tipologie di proprietà più rilevanti sul piano sociale ed economico, la connessione tra diritto al lavoro e risparmio appare palese a chiunque volesse leggere la Costituzione con l’occhio dei…Costituenti: cioè aderente alla più autorevole forma di interpretazione “autentica” in senso sostanziale.
E ciò significa che la realizzabilità di un risparmio popolare, ricompreso a titolo principale, in “tutte le sue forme”, costituisce anch’esso l’oggetto di un vincolo ineludibile – “molto interno” in quanto conforme alla parte immodificabile della legalità costituzionale.
Questo proprio perché il fenomeno del risparmio si collega, attraverso la sequenza “livello di occupazione-tutela “reale” del livello del reddito (art.36 Cost.)-crescita della domanda aggregata-creazione di reddito non consumato”, al principale dei diritti fondamentali della Costituzione, posto dal citato art.4 in raccordo con la chiara enunciazione del fondamento di tutta la sovranità popolare (art.1 Cost.: sovranità, va rammentato, meramente delegata agli organi di vertice di formazione dell’indirizzo politico, cioè affidata in senso realizzativo-strumentale nelle “forme e limiti” enunciati nello stesso art.1).
Se si conviene sul fatto che tali enunciati siano principi “fondamentalissimi” della Carta suprema, essi non sono modificabili in alcun modo, tantomeno in conseguenza dell’adesione a trattati che favoriscano “la pace e la giustizia fra le Nazioni”, e in “condizioni di parità” (art.11 Cost.). Tali sono, infatti, i limiti costituzionali di legittima assunzione del “vincolo esterno” che, quand’anche rispettati dall’adesione ai Trattati UE-UEM, – e non lo sono- non potrebbero comunque violare l’art.139 Cost. e pervenire alla alterazione permanente degli obblighi di realizzazione dei diritti fondamentali posti a carico delle istituzioni costituzionali e democratiche.
In tal senso, basterà ricordare che, con riferimento al risparmio, esso, quantomeno deve esserci ed essere diffuso a tutte le classi sociali, e non risultare programmaticamente, e in forza di un “vincolo esterno” derivante dal diritto internazionale pattizio:
a) forzatamente ridotto o addirittura escluso, in quanto a tale risultato si perviene, tendenzialmente e progressivamente, attraverso il vincolo del deficit posto fin da Maastricht, unitamente all’adozione di una moneta a sostanziale cambio fisso che incide sulla realizzabilità di un avanzo delle partite correnti in simultanea alla crescita del reddito nazionale (cioè rendendo impossibile tale simultaneità, come risulta dai fatti eclatanti degli ultimi). Tale effetto riduttivo-eliminatorio di risparmio e crescita è poi realizzato con assoluta sicurezza mediante il “fiscal compact-pareggio di bilancio”;
b) concentrato nelle sole mani della parte più abbiente della società ed, ormai, essenzialmente nel settore finanziario-bancario: tale è l’effetto progressivo del tetto al deficit –e ancor più del pareggio di bilancio- a fronte della riduzione/compressione dei redditi e dell’occupazione che ne consegue, in corrispondenza alla concentrazione, attualmente all’87% del totale, della qualità di creditore dello Stato e di percettore dei relativi interessi, in capo a operatori di tale settore.
Ciò avrebbe posto già da decenni l’interrogativo sulla stessa compatibilità costituzionale del divorzio “Tesoro-Bankitalia”, che è alla radice di questa progressiva e inevitabile (anzi, intenzionale) concentrazione della capacità di risparmio, in senso redistributivo “all’inverso” di quanto ha previsto la Costituzione all’art.47. E, va ribadito, contemporaneamente come diretto riflesso dello svuotamento inesorabile del “diritto al lavoro”, da intendere come obbligo costituzionale di politiche di “pieno impiego” e non di deflazione salariale perseguita come unica via alla “competitività” segnata dai principi fondanti dei trattati (si veda l’art3, par.3, del TUE).
Sul punto ci limitiamo a condividere alcuni enunciati che si muovono sul piano della corretta interpretazione della stessa Costituzione.
Così, “La Repubblica disciplina il credito; non possono essere organi dell’Unione europea a disciplinare il credito; né possono essere soggetti privati. Le limitazioni della sovranità, previste dall’art. 11 della Costituzione, a parte ogni altra considerazione, possono riguardare soltanto l’esercizio della sovranità nell’ambito di ciò che è prescritto dalla Costituzione; non la possibilità di esercitare la sovranità delegata al di fuori della Costituzione. Comunque l’Unione bancaria non ha nulla a che vedere con il mantenimento della pace e della giustizia tra le nazioni. Quindi in questa materia non è possibile alcuna limitazione della sovranità. Gli autori, anche autorevoli, che richiamano il presunto carattere “aperto” del nostro ordinamento finendo per giustificare ogni limitazione di sovranità (Merusi), non possono essere seguiti.
Né è costituzionalmente legittima la indipendenza della banca d’Italia (e a maggior ragione l’estraneità alla Repubblica – è estraneità e non solo indipendenza – della BCE). La politica monetaria spetta alla Repubblica, il coordinamento spetta alla Repubblica e il controllo spetta alla Repubblica. La Banca d’Italia deve agire sotto le direttive del Governo. La disposizione non avrebbe avuto senso se, come pure si sostiene (ancora Merusi), con il termine “Repubblica” avesse richiamato semplicemente lo stato-ordinamento. Invece richiama lo stato-apparato, anche perché a coordinare e controllare – salvo la fissazione dei principi e delle modalità, compiti che spettano certamente al legislatore – non possono che essere il Governo e l’amministrazione (nella prima e unica Repubblica, il CICR: Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio). Dunque, seppure non si voglia aderire all’antica opinione che leggeva nella proposizione che commentiamo la costituzionalizzazione della legge bancaria del 1936, tuttavia è certo che la vigente legislazione bancaria è incostituzionale. L’art. 47 della Costituzione non si limita ad attribuire alla Repubblica una competenza che il legislatore non può trasferire ad altri soggetti, bensì, imponendo alla Repubblica di coordinare l’esercizio del credito, detta anche un vincolo contenutistico, sebbene di carattere negativo, relativo alla disciplina dell’esercizio del credito.
Infatti, nel disciplinare il credito, la Repubblica non può affidarlo al criterio della concorrenza, perché l’esercizio del credito va coordinato. La scelta dell’introduzione del principio di libera concorrenza, è scelta di non adempiere il dovere posto dai padri costituenti: dovere di coordinare il credito. Il Parlamento italiano non può privare il Governo del potere di coordinare, né può sottrarre se stesso al dovere di coordinare legiferando. Si coordinano entità diverse per un fine o in vista della realizzazione di più fini: quelli costituzionali. Scegliere la concorrenza come criterio regolatore significa rinunciare al coordinamento e rinunciare ai fini (costituzionali) in vista dei quali deve essere disciplinata e svolta l’attività di coordinamento. La scelta nichilistica è anticostituzionale.
La tesi secondo la quale l’art. 47 sottrarrebbe la materia dell’esercizio del credito (e quella della tutela del risparmio) all’art. 41, 3° comma, ossia alla riserva di legge relativa e quindi alla programmazione (ancora Merusi), è una petizione di principio che non poggia su alcun dato letterale. Secondo questa tesi, anzi, l’art. 47, sarebbe un prius, perché si potrebbe programmare soltanto sul fondamento della tutela del risparmio, tutela che consisterebbe nella lotta all’inflazione (le indicizzazioni, chi sa perché, sarebbero incostituzionali). Come questa “costruzione”, che è vera a e propria “invenzione” e anzi sovrapposizione della disciplina di matrice europea alla disciplina costituzionale, sia compatibile con la promozione della piena occupazione – che questa dottrina riconosce essere uno dei lati del “quadrilatero” della costituzione economica – non è dato sapere.”
O, ancora, con accenti più “mediati” ma egualmente indubitabili e particolarmente significativi per la “fonte”, le parole di Mario Sarcinelli (ex Vicedirettore generale Banca d’Italia), a commento di un’affermazione elaborata dal Governatore Baffi riguardo al regime dei cambi valutari “(…) il giudizio di valore consacrato dall’enunciato costituzionale (dell’articolo 47 Cost. n.d.r.) dava maggior peso alla tutela del risparmio che alla stabilità della moneta (…). Dopo l’approvazione italiana del Trattato di Maastricht, il rapporto “costituzionale” tra tutela del risparmio e stabilità dei prezzi è mutato, innalzando la seconda a livello della prima”.
Ovviamente, questa deduzione di Sarcinelli va vista come mera “constatazione logica e fattuale”, essendo avulsa dal trattare il problema giuridico se ciò potesse accadere alla luce del dettato costituzionale.
2- L’IRRUZIONE DELLA DISCIPLINA “EUROPEA” NEL SETTORE CREDITIZIO E DEL RISPARMIO.
Il cambio di paradigma in materia di regolamentazione bancaria, richiesto dall’Europa per realizzare la libera circolazione dei capitali, parte da lontano e risale all’affermazione del carattere d’impresa dell’attività bancaria, esclusivamente regolato dal principio fondamentale dei Trattati della “forte competizione” concorrenziale, a discapito dell’interesse pubblico, proclamato invece nella legge bancaria del ’36.
Con la prima direttiva comunitaria in materia bancaria (CE n. 780/77), recepita tramite il DPR 350/85, è stato introdotto nell’ordinamento interno il principio del libero accesso all’attività bancaria.
La seconda direttiva (CE n. 646/89), poi, ha realizzato il coordinamento delle disposizioni legislative nazionali. Unitamente alla prima diede vita ad una vera e propria “legge bancaria comunitaria”, che ha portato, in Italia, al Testo Unico Bancario del ’93 (d.lgs. 385/93).
Questo punto di svolta segnò il passaggio dalla cd. vigilanza cd. “strutturale”, volta a perseguire l’obiettivo della stabilità del sistema attraverso la preventiva valutazione del bisogno economico del mercato, a quella “prudenziale” fondata, essenzialmente, sulla valutazione dell’adeguatezza del patrimonio bancario a presidio dei “rischi d’impresa”.
In nome della concorrenza è stata fortemente limitata la discrezionalità tecnica della Banca d’Italia.
La potestà di normazione secondaria del regolatore nazionale è stata ridotta alla mera ricezione, via Commissione Europea e Comitato di Basilea, delle metodologie di misurazione dei rischi, ad elevato grado di astrazione, elaborate dagli stessi operatori internazionali nominalmente sottoposti al controllo della vigilanza bancaria.
Allo stato attuale, le crisi finanziarie che si sono succedute nell’ultimo trentennio, con maggiore frequenza e intensità rispetto al passato, e con costi crescenti a carico dei bilanci pubblici per ripianamento delle perdite, impongono una riflessione critica anche sulla praticabilità di un modello di controllo basato sulla centralità del “patrimonio” e sull’omogeneità del modello imprenditoriale di banca universale adottato – ma anche imposto “ope legis”- dagli operatori.
Tutti problemi che, va fortemente sottolineato, l’accordo sulla “Unione bancaria” lascia del tutto irrisolti e sullo sfondo.
Ed infatti, le difficoltà incontrate dalle Autorità di vigilanza nel far osservare i principi della corretta gestione creditizia, non potranno essere superate – neanche in improbabili contesti sovranazionali – fintanto che non verrà messo in discussione l’approccio “prudenziale”, eccessivamente rispettoso delle prerogative degli operatori di mercato (e molto meno di quelle di depositanti e contribuenti).
L’eccessiva confidenza nella capacità degli operatori di valutare autonomamente i rischi contrasta con la stessa ragione dell’intervento regolamentare pubblico quella di limitare il “moral hazard” del banchiere, cioè la particolare tentazione, connaturata all’attività, di appropriarsi tout court delle risorse affidate dai risparmiatori omettendo di effettuare la dovuta selezione degli impieghi in una ideale logica di funzionalità del sistema.
Nel sistema della legge del ’36 l’interesse pubblico posto sull’attività bancaria costituiva un efficace argine per il “moral hazard” che nessuna possibile misura del patrimonio bancario, – pur sempre una frazione della massa dei depositi-, può rimpiazzare.
Il patrimonio di una banca, qualunque sia la forma giuridica, è essenzialmente un patrimonio di relazioni (in teoria una banca potrebbe operare con patrimonio negativo): quelle buone portano buoni frutti, quelle pericolose portano alla crisi. Il conto di quest’ultime è portato ai contribuenti.
Nel sistema delineato dalle normative comunitarie, prima con il recepimento di Basilea 1 e poi con Basilea 2, gli strumenti d’intervento posti a disposizione delle Autorità di vigilanza non si sono dimostrati efficaci a prevenire le crisi.
Un’ulteriore complicazione al mercato del credito, derivata da Basilea 2, è la prociclicità, che porta gli operatori a restringere le erogazioni nelle fasi discendenti del ciclo economico per “risparmiare” capitale.
Le linee di riforma stabilite da Basilea 3, dichiaratamente nate per porre rimedio alle falle che hanno prodotto la crisi del 2007-2008, si pongono in sostanziale continuità con lo schema già accennato, tanto che alcuni specialisti parlano di occasione mancata (o falsa panacea), apportando, di nuovo, solo sistemi di ripartizione delle perdite dell’attività bancaria, per particolari categorie di finanziatori (bail in).
Non risulta modificato, anche in prospettiva, l’impianto regolamentare, deputato ad assicurare il controllo sulle banche alle quali è pacificamente riconosciuto, per i motivi sopra accennati, il carattere di impresa “speciale”, tanto da meritare una specifica attenzione pubblica.
In tali condizioni, di “controllo volontaristico”, nella pratica, una banca resta stabile fintanto che il “prelievo alla fonte”, ovvero il “frutto” del moral hazard, operato dai poteri decisori interni, è sopportabile della generale massa dei clienti depositanti e prenditori ordinari.
Detto “prelievo” si estrinseca nell’acquisizione di attivi bancari “farlocchi”: tanto le classiche concessioni di credito predestinate a trasformarsi in sofferenze, quanto i più moderni prodotti della finanza innovativa (derivati et similia) di incerto valore che, tuttavia godono di favorevoli ponderazioni (quotazioni cd. ‘mark to fantasy’).
Nel sistema “prudenziale” non vi è modo per la vigilanza bancaria di contrastare la formazione delle perdite preordinate ex-ante, nonostante la continua iperfetazione della normativa secondaria, restando solo la decisione di ritiro della “licenza” bancaria quando il “prelievo” osservato non è più sopportabile dalla generica clientela della banca.
Peraltro, la possibilità di applicare questa “punizione”, che interviene, per definizione, solo quando i danni sono già stati prodotti, è in pratica possibile solo per gli intermediari di minori dimensioni, non per quelli di rilevanza sistemica. Qualche voce critica sulla ridondanza della strumentario utilizzato dalla vigilanza “prudenziale” si è levata di recente dallo stesso ambiente delle banche centrali.
A conferma di ciò, basterebbe rammentare che “il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea non contiene, in conformità all’evoluzione legislativa europea, alcun riferimento alla tutela del risparmio la quale viene demandata interamente alle fonti comunitarie di secondo grado (c.d. diritto comunitario derivato). Ciò, come si è più sopra evidenziato, non ha impedito di adottare misure a tutela del risparmio a livello europeo anche se, come osservato, la mancata menzione nel Trattato di tale principio ha comportato con riguardo alla nozione di risparmio una sorta di interscambiabilità dei termini “risparmiatore” e “investitore”.”
Il che costituisce un problema non da poco, data la macroscopica incompatibilità di tale “interscambiabilità” col concetto “sistematico” di risparmio diffuso e ad accesso popolare accolto in Costituzione, che tende a separare, per assoluta necessità logica, l’investitore che esercita attività professionale di impresa nel settore finanziario nonchè il percettore essenziale di “rendita”, da colui che assume il risparmio come frutto residuo del reddito da lavoro, e quindi in termini di eventualità che, a differenza dell’UE, la Repubblica si impegna a rendere una effettiva realizzazione.
Ma, in termini logicamente antecedenti, l’Unione europea, e a maggior ragione quella monetaria, retta da un’unica istituzione “dedicata”, la BCE, soggetta al mandato esclusivo della stabilità dei prezzi (art.127 TFUE) , e solo in via accuratamente subordinata a quello della “piena occupazione” (in senso neo-classico, di qualunque livello di occupazione compatibile con l’inflazione perseguita), predica implicitamente la assoluta indifferenza verso la formazione diffusa del risparmio, e la presupposta finalità redistributiva in essa insita, preoccupandosi invece solo della stabilità finanziaria. Quest’ultima, a sua volta, assunta dal solo punto di vista dell’impresa bancaria, cioè come instaurazione di una fiducia sulla solvibilità di sistema, tutta racchiusa nella logica di parametri riferiti ai soli bilanci e indici di patrimonializzazione bancaria; con ciò rendendosi, come abbiamo visto, altrettanto indifferente verso ogni forma di moral hazard nel credito e di tipologia “universale” di investimento consentita alle banche, e quindi al di fuori di ogni ipotesi di repressione finanziaria e di (previgente) separazione delle tipologie di attività bancario-finanziaria.
“In questo senso la preoccupazione del legislatore europeo, fermo restando l’inviolabile dogma della stabilità dei prezzi e della libera circolazione dei capitali, è stata quindi di elaborare norme che obbligassero le imprese attive nel settore finanziario all’osservanza di determinati principi di (presunta) trasparenza informativa, tali da consentire ai risparmiatori/investitori di possedere,- in linea teorica ed assolutamente probabilistica-, le informazioni necessarie a ridurre il più possibile il profilo di incertezza relativo alle proprie scelte di investimento. Questa impostazione dimostra la completa marginalizzazione degli interessi dei risparmiatori/investitori paragonata alla possibilità dell’industria finanziaria di poter, in linea teorica, sviluppare le tipologie più sofisticate di investimento finanziario senza che esse siano vietate o, almeno, disciplinate, da alcuna disposizione normativa.
Il percorso storico-legislativo appena tratteggiato ha portato inevitabilmente alla configurabilità di iniziative quale quella, recente, di bail-in delle imprese bancarie in crisi mediante utilizzo del denaro di azionisti, obbligazionisti e finanche semplici correntisti. Ciò non rappresenta altro che la naturale evoluzione, estremizzata, del principio secondo il quale il risparmio non debba più ritenersi veicolato all’interno del settore finanziario da risparmiatori pubblicamente tutelati bensì da investitori razionali i quali, se correttamente informati, subiscono su di sé gli effetti negativi di un investimento sbagliato.”
LA C.D. “UNIONE BANCARIA” OGGETTO DELL’ACCORDO “ECOFIN”.
E’ proprio come sviluppo di tali premesse che interviene ora la proposta, inserita all’interno delle trattative che riguardano la creazione di un sistema di vigilanza bancaria europea, che mira a consentire l’effettiva possibilità di attuare meccanismi di risanamento e risoluzione delle crisi “finanziarie”, ritenendo di poter ottenere il risultato che, quando la situazione delle banche diventa insostenibile, possa essere consentito loro di fallire e/o di essere liquidate in modo ordinato senza la (presunta e iper-enfatizzata) necessità di salvataggi “a carico dei contribuenti”.
Anche se, per la verità, una simile affermazione nasconde abilmente il suo presupposto “ideologico” monetarista, divenuto parametro supervincolante in forza dei trattati citati. Ci riferiamo alla incontestata “iperconvinzione” per cui il salvataggio bancario, svincolato dalla tutela di un interesse pubblico di primaria rilevanza, e da una preventiva ed efficiente “vigilanza”, (divenuta “prudenziale” e cioè praticamente autogestita dalle prassi presuntive delle stesse banche “universali”, in base a parametri che escludono ogni pubblica censura del moral hazard e del rischio strutturale insito nella tipologia degli investimenti consentiti) diverrebbe, sempre e comunque, un “onere” per i contribuenti.
Ma ciò, si badi bene, può risultare attendibile solo in quanto si instauri, in difformità dalle Costituzioni democratiche, un particolare quadro istituzionale: cioè, solo in quanto lo Stato che intervenga sia privo di una banca centrale che funga da tesoriere (non da mero prestatore da ultima istanza, concetto attualmente abusato fuori dalla sua corretta accezione) per l’esercizio delle sue funzioni fondamentali di interesse pubblico di massimo livello; e fra di esse, appunto, la tutela dei risparmiatori tracciata nelle stesse Costituzioni democratiche.
Nella instaurazione politico-ideologica di questa “tecnica di controllo” delle democrazie a radice monetarista, lo Stato viene infatti assoggettato al rigido ricorso ai “mercati” – cioè in definitiva, allo stesso settore bancario-finanziario “vigilato”, per la provvista finanziaria delle sue azioni sovrane (instaurando ciò che Keynes definì “la parodia dell’incubo di un contabile”).
Ed infatti, dietro all’apparente efficiente intento di salvaguardare l’impiego di fondi pubblici nei fallimenti bancari, ispirato dall’esigenza di non ripetere le esperienze di bail-out sperimentate durante il periodo di maggior acutezza della crisi finanziaria del 2008, si nasconde il coinvolgimento in toto del settore privato, e in ultima analisi dei risparmiatori-lavoratori, in precedenza principali destinatari della tutela pubblica, nella risoluzione delle crisi bancarie. Ed infatti, se approvato, lo schema attuale “Ecofin”, farà sì che ogni utilizzo di fondi pubblici nazionali e/o europei sarà subordinato al previo accollo dell’eventuale costo di liquidazione della banca a carico nell’ordine:
a) degli azionisti;
b) degli obbligazionisti dei prestiti subordinati;
c) degli obbligazionisti non subordinati;
d) dei depositi delle grandi imprese;
e) dei depositi con giacenze superiori a centomila euro. Sulla base di quanto appena riportato rimarrebbero al sicuro, pertanto, i soli depositi con giacenze non eccedenti tale importo.
Per coprire le perdite si prevede il ricorso a fondi di azionisti e obbligazionisti (bail-in) fino a un tetto pari all’8% degli assets bancari. Qualora le perdite della banca eccedessero un valore superiore a questo 8%, gli Stati hanno in mente di chiedere un intervento pubblico pari al 5% del valore degli asset bancari, per arrivare così a una soglia di rifinanziamento del 13%. Ciò nonostante alcuni Paesi, tra cui la Germania hanno chiesto che nei casi di insolvenza gravi e richiedenti interventi di assorbimento degli shock superiori alla quota del 13%, tale ulteriore impegno sia nuovamente assorbito dal denaro azionisti e correntisti.
4- GLI EFFETTI DI SISTEMA DELLA “APPARENTE” UNIONE BANCARIA SULLA STESSA TITOLARITA’ DEL POTERE DI CREAZIONE DELLA MONETA.
Ma oltre alla conferma di un modello bancario e di vigilanza finora rivelatosi non solo inadeguato, ma anche completamente contrapposto alle esigenze di tutela predicate dal principio fondamentale costituzionale dell’art.47 Cost. (con tutte le accennate ricadute su altri principi fondamentali), l’Accordo attualmente in “dirittura d’arrivo”, ha, in prospettiva, degli esiti ben più ampi.
Essi tendono addirittura al superamento del residuo carattere accentrato della creazione di moneta nell’area UEM, che, pur attualmente “adespota”, cioè non imputabile a nessuna entità sovrana, in esito al suo affidamento alla BCE, rimaneva pur sempre attribuita ad un’entità latamente ascrivibile alla sfera soggettiva del “diritto pubblico” (pur potendosi dubitare dell’ascrivibilità alla sua sfera “oggettiva”, data la mancanza, nel mandato BCE, di ogni àncoraggio a politiche di piena occupazione in senso effettivo, nonché di tutela del risparmio diffuso, che rispondono al concetto democratico di “interesse generale”, e non settoriale-concorrenziale di una specifica attività economica come quella bancaria).
Sempre tenendo ben presenti le premesse svolte nei paragrafi precedenti, per comprendere questo potenziale preannunzio di “rivoluzione” (monetarista e liberista), occorrono alcune altre “informazioni”.
In proposito, nell’individuare la radice ideologica del liberismo e della stessa teoria generale politica recepiti e sviluppati (ormai a grandi passi) dalla “costruzione europea”, si deve far riferimento a quanto elaborato da von Hayek. Che propose questo approccio alla questione monetaria, finalizzato alla sua “denazionalizzazione”; specificamente, per pervenire alla sua “privatizzazione” in regime concorrenziale:
“– una moneta di cui si pensa che conserverà un potere di acquisto più o meno costante, sarà oggetto di domanda permanente fintanto che le persone saranno libere di utilizzarla;
– se tale domanda dipende dall’effettivo mantenimento a un livello costante del valore di questa moneta, si potrà dare confidenza alle banche emettitrici di fare tutti gli sforzi necessari per giungervi meglio di un monopolista, che non corre alcun rischio deprezzando la propria moneta;
– gli emettitori possono giungere a questo risultato regolando la quantità di moneta che emettono;
– un tale regolazione della quantità di ciascuna moneta è il migliore di tutti i metodi praticabili per regolare la quantità dei mezzi di scambio.”
Il substrato comune “ideale” tra il “nostro” e il metodo euro-BCE, quale istituzione “unica” di gestione della moneta, risulta certo parzialmente compromissorio. Ma rimane, nei “fini” enunciati normativamente nei trattati, a partire da Maastricht, quello della stabilità del valore monetario, cioè pratica assenza di (variazione della) inflazione – solo in aumento, a quanto pare dall’applicazione scaturitane-, e della visione monetaristica “quantitativa“. I riflessi a cui conducono entrambe le soluzioni, con diversa gradualità…si misurano sulla curva di Phillips. La disoccupazione “naturale” (cioè l’abbandono della piena occupazione) e il conseguente calo dei salari reali sono indispensabili caratteristiche del modello sociale da attuare.
Certo, per v.H. il gold standard rimane una soluzione ideale, ma egli ammette che poiché ad esso si contrappone “l’assurda” pretesa che, nell’economia internazionale aperta, i paesi in surplus debbano sopportare (con la rivalutazione) il peso degli aggiustamenti, il valore della stabilità (assenza di inflazione) possa essere “almeno” garantito da quanto egli propone.
Questo passaggio è direttamente indicativo:
“Resterebbero nel mondo libero più monete largamente utilizzate e molto simili. In vaste regioni una o due fra queste sarebbero dominanti, ma queste regioni non avrebbero confini né precisi né fissi, e l’uso delle monete dominanti in ognuna si sovrapporrebbe in zone frontaliere larghe e fluttuanti. La maggior parte di queste monete farebbe affidamento a un paniere di beni simili e fluttuerebbero molto poco le une in rapporto alle altre, probabilmente molto meno delle monete dei paesi oggi più stabili, ma un po’ di più delle monete che riposano su un gold standard.”
Sulla manifesta correlazione tra pensiero di von Hayek e “costruzione europea” in campo monetario, abbiamo la conferma, piuttosto autorevole e altamente attendibile, di Otmar Issing, ex membro tedesco del board BCE, pervenutaci in “atti ufficiali” della stessa banca europea:
“Sebbene il sentiero prescelto per ottenere la denazionalizzazione della moneta sia stato molto differente rispetto a quanto reclamato da Hayek, l’obiettivo finale da egli ricercato, cioè la indipendenza monetaria dall’interferenza politica e la stabilità dei prezzi, sono state, a tutti i fini e intenti, già ottenute. Naturalmente, devo aggiungere…che la stabilità dei prezzi non è mai pienamente ottenuta, nel senso che è un concetto previsionale, e la BCE deve essere “eternamente” vigilante in modo preventivo per evitare che la pressione inflazionistica non si traduca in inflazione effettiva. Detto questo, temo che Hayek potesse non essere in favore di una nuova autorità centralizzata con poteri monopolistici sulla base monetaria”.
Ma, conformemente alla stessa esigenza di realizzazione “strategica” degli “obiettivi finali”, espressamente teorizzata da Hayek, recepita dai suoi seguaci “euro-costruttori” nella formula dell’ “ordoliberismo”, nonché condensata nella formulazione dell’art.3, par. 3, del Trattato fondamentale sull’Unione, l’affermazione a tappe, rese “digeribili” alle grandi platee dei cittadini delle democrazia (ex) coinvolte nell’UEM, potrebbe giungere al suo coronamento finale proprio grazie all’attuale progetto di Unione bancaria.
Cercando di concludere il ragionamento e di pervenire ad un’attendibile stima della “strategia” attualmente sottostante alla c.d. “unione bancaria”, quale illustrata nelle sue linee fondamentali, e nelle sostanziali premesse di disciplina bancaria e monetaria “europea”, (ormai consolidata), ecco dunque quello che si può ragionevolmente dedurre:
“La progressione, o meglio “regressione”, verso la moneta denazionalizzata è il possibile esito del distacco degli intermediari bancari dal sistema produttivo nazionale originario e dal “sovrano”, senza la realizzazione dell’unità politica (gli Stati Uniti d’Europa).
Schematizzando al massimo:
1) la BCE nasce come banca centrale anomala perché non fa da “tesoriere” ad un sovrano. Compito della politica monetaria di una BC tradizionale è infatti proprio quello di conciliare le esigenze di finanziamento del sistema produttivo (tramite il rifinanziamento/controllo del sistema bancario) e dello Stato, tendendo ad obiettivi di livello dei prezzi e di crescita/occupazione in naturale conflitto (trade-off);
2) il fine dichiarato dell’unione bancaria è quello di spezzare (definitivamente) anche il legame fra sistema bancario nazionale e sovrano nel vicendevole scambio “finanziamento del debito pubblico vs. copertura dal rischio di fallimento”;
3) l’essenza e la novità del nuovo sistema di vigilanza europeo è il cd. “meccanismo unico di risoluzione” (in via di definizione a giorni), cioè di liquidazione accentrata degli attivi degli intermediari dichiarati in crisi (non si sa ancora da chi, forse Ecofin da proposta tedesca). Il costo della liquidazione è previsto principalmente a carico dei creditori (il famigerato bail-in), sdoganando la possibilità di fallimento delle banche. In teoria è sempre possibile per gli Stati intervenire con risorse di capitale per salvare gli intermediari dal fallimento, se compatibile con i limiti di finanza pubblica (in fase di avvio della vigilanza accentrata sono espressamente richieste agli stati risorse pubbliche, cd. backstop);
4) con queste regole e il mantenimento della mobilità dei capitali si attiveranno rapidi flussi finanziari verso gli intermediari ritenuti più sicuri (anche grazie a qualche sostegno pubblico), con grave nocumento per la stabilità di quelli radicati in territori con sistemi produttivi in recessione (es. per effetto della compressione della domanda interna) e, per la ridotta dimensione, senza la concreta possibilità di ricostituire il capitale;
5) il numero degli intermediari, seguendo la destrutturazione/ristrutturazione dei sistemi produttivi nelle macro regioni europee, si ridurrà di molto, come prevede il vice presidente della BCE. Estremizzando (è questa l’ipotesi forte del ragionamento) i maggiori potrebbero ridursi a 5-7 (in pratica saranno favoriti nella transizione quelli “sostenuti” da stati forti, il bail-out non è vietato (ma deve essere sempre nel rispetto del pareggio di bilancio, cioè, in pratica consentito solo a chi abbia un costante e consistente attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, riversatasi una posizione netta sull’estero di segno positivo);
6) i pochi “player” rimasti (in oligopolio) potranno decidere di finanziare privati o entità pubbliche o intermediari minori (o di nicchia) assumendo i relativi rischi di credito e di essere “percepiti” più o meno affidabili nell’emissione di moneta-credito (potrebbero anche stabilirsi dei “cambi” fra monete in base al rischio percepito dagli utilizzatori).
7) La situazione sarebbe del tutto simile a quella immaginata da F. von Hayek.
La banca centrale che non fa da tesoriere a un sovrano perde anche la sua essenza di governo della politica monetaria e resta solo una entità amministrativa (più o meno estesa) dello stato minimo hayekkiano. In questo senso il sistema BCE/SEBC potrebbe rivelarsi solo un passaggio intermedio (come ha espressamente sostenuto Otmar Issing, sopra cit.).”
Naturalmente il futuro non è scritto. L’esito dello scontro fra le istanze politiche determinerà se prevarrà il magico mondo “von Hayek” o gli Stati Uniti d’Europa o il ritorno agli stati (democratici) con proprio “tesoriere”.”
E questo a tacere d’altro, con riguardo alle implicazioni della Unione bancaria.
E cioè sia quanto alle incongruenze del sistema di assicurazione dei depositi (fino a 100.000 euro) proiettato nella segnalata realtà monetaria e bancaria ormai priva del riferimento dell’interesse generale (cioè indifferente al moral hazard ed all’effettivo rischio degli impieghi finanziari illimitatamente consentiti). Sia quanto alla stessa saggezza di farsi coinvolgere in un sistema simile, a fronte di un sistema bancario tedesco che non pare proprio aver risolto le sue problematiche di trasparenza dei bilanci e di capitalizzazione (e né avrebbe potuto o dovuto, data la disciplina “europea”) alla luce delle “scorie” della crisi c.d. dei sub-prime. Almeno a constatare la posizione che assumono attualmente le autorità monetarie USA.
(Il presente contributo è il condensato dei temi più estesamente trattati sul blog http://orizzonte48.blogspot.it/)