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Destra, l’eredità che rivendichiamo.

E’ appena trascorso il sessantasettesimo anniversario della fondazione del Movimento Sociale Italiano. Fu nel giorno di Santo Stefano del 1946 che, nello studio legale romano del padre di Arturo Michelini, un ristretto manipolo di giovani neofascisti costituì la forza politica che sarebbe progressivamente cresciuto fino a rappresentare in toto la destra nazionale italiana.

Una scelta tutt’altro che facile: il Paese usciva da una durissima sconfitta militare ed etica, la guerra civile aveva lasciato strascichi pesantissimi, e se la lungimiranza del Guardasigilli Palmiro Togliatti aveva avviato una limitata fase di perdono e di riconciliazione, era ancora attiva in Emilia la Volante Rossa, e non si contavano i regolamenti di conti e le vendette nel Nord. Michelini, Almirante, Romualdi e pochi altri si assunsero non solo la responsabilità di dar voce alle ragioni dei vinti, ma anche di salvare quelle ragioni dalla deriva del terrorismo e dell’eversione. Escluso dalla Costituente, esorcizzato e colpito da anatema perenne, il Movimento Sociale Italiano riuscì comunque a contribuire alla costruzione dell’edificio della democrazia italiana, ad affrancarsi dall’etichetta nostalgica e revanchista, a far convivere al proprio interno la pluralità e i travagli di un’Italia spaccata e lacera, la cui sovranità nazionale e la cui stessa identità di Patria si erano inabissate senza rimedio nel fatale otto settembre del 1943.

Da quelle carte ingiallite, da quei profili austeri, da quelle bandiere e quegli slogan moltissimo ci separa. Non solo per i conti che la destra nazionale ha fatto con l’esperienza del Fascismo, per la demitizzazione laica dello stesso concetto di nazione, per la distanza presa dai comodi alibi del sentirsi “antisistema” e perciò stesso non tenuti ad affrontare le sfide della modernità. Siamo distanti perché siamo cresciuti: non ci appartiene più il sogno di una casamatta identitaria, di un luogo immobile e riparato dove condividere mistiche e culti; siamo figli della contemporaneità, crediamo alla competizione dei programmi, al confronto serrato sui contenuti, all’ideologia come strumento di comprensione e di interpretazione e non come gabbia dogmatica.

Andiamo però fieri di quattro cose, che sottoscriveremmo ancora oggi: la prima è che in quel giorno, persone che avevano fatto la guerra e la Storia con la esse maiuscola, scelsero, e non per furbizia tattica, di farsi rappresentare come segretario dal trentanovenne Giacinto Trevisonno, quello fra loro che aveva avuto i ruoli di minor rilievo durante il regime e la Repubblica Sociale. Non era certo camuffamento, per un partito la cui fiamma sorgeva direttamente dal sepolcro del Duce; era il segnale (“futurista”, diremmo noi) che ai nuovi tempi si addicono uomini nuovi.

La seconda è che il neonato Movimento non si imbrancò con l’Uomo Qualunque, di cui pure condivideva lo stato d’animo. Il Msi non era e non voleva essere un partito nel senso classico (nessun nazionalista può accettare l’idea divisiva propria dei partiti fin dall’etimo); ma aveva un’idea alta della politica e della partecipazione alla vita pubblica, fatta di militanza e passione, di durissimo sacrificio personale (altro che rimborsi!), ma anche di rispetto delle istituzioni e delle competenze.

La terza è l’aspirazione alla pacificazione nazionale, che non è il grimaldello farlocco dell’impunità berlusconiana, ma la rinuncia alle contrapposizioni muscolari, alla trasformazione dell’avversario in nemico e della democrazia in periodica apocalisse o Armageddon.

La quarta, naturale conseguenza delle altre, è la scelta dell’Italia sopra tutto e sopra tutti. Perché nessun interesse o calcolo di bottega può essere più importante della forza, della serenità e del destino di un popolo. Sia questa, ancora oggi, la nostra stella polare.

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