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Genesi e declino dell’euro, la moneta unica che divide il Continente

Per comprendere il quadro della situazione in cui, in modo apparentemente irrisolvibile, ci colloca l’appartenenza all’euro, dobbiamo risalire ad una ricostruzione storico-politica che affonda le sue radici, come vedremo, in eventi lontani, (in termini di Storia contemporanea) quali l’affermazione della indipendenza delle banche centrali (nella sua forma “pura” recepita nell’attuale art.123 del trattato sul funzionamento dell’Unione) ed il rapporto Werner del 1971, in cui ha preso forma compiuta, per la prima volta, l’ipotesi di una “moneta unica”.

MECCANISMI DI AUTODIFESA
Prendiamo spunto da un commento operato sul blog orizzonte48 da uno dei più attenti partecipanti al dibattito:

La tua chiosa circa le violazioni comunitaria e tedesca mi pare rappresenti l’ennesimo monito a diffidare di qualsiasi soluzione che non contempli meccanismi di autodifesa a livello nazionale, come il cambio flessibile.

Onore al merito, vorrei ricordare che Stiglitz prese posizione contro l’indipendenza della banca centrale già nel 2001 (pdf di 24 pagine. Pag. 23: “The necessity of an indipendet central bank that is not democratically accountable has also became part of the mantra in many parts of the world. There is no issue of more concern to the people in most of the world than their jobs, and monetary policy has a very large effect on that. Why is that, on the one hand, we tell countries democracy is very important, but on the other hand, when it comes to the most issues that are most important to them, jobs and employment, we say: this is too important to be entrusted to democratic processes; you should have an indipendent central bank?”).

L’INDIPENDENZA DELLE BANCHE CENTRALI
Questa la risposta che consente la ricostruzione storico-politica preannunziata in premessa:

Certamente. Il conceptual frame di tale “dottrina” (delle BC “indipendenti”) affonda la sue radici in un’affermazione ideologica che è agli antipodi del mantenimento della stessa democrazia sociale: la domanda cui qui – e nel libro “Euro e (o?) democrazia costituzionale”- abbiamo cercato di dare risposta va un po’ oltre la stessa “premessa” interrogativa di Stiglitz ed è, quindi, “come è potuto succedere“?

È chiaro che, in assenza dell’affermazione della “dottrina” della indipendenza delle banche centrali, l’euro non avrebbe avuto questa realtà e questi sviluppi. E come avrebbe potuto, se si pensa alle sue implicazioni operative ultime?

IL MOMENTO STORICO
Probabilmente, di fronte alla sua contestazione diffusa, (intendo della “indipendenza”), in base alla opposta dottrina della “democrazia necessitata” racchiusa nelle Costituzioni, l’euro non sarebbe neppure nato.

E, semmai la sua “occasione storica” (cioè la riunificazione tedesca) avesse avuto una reale autenticità, l’evoluzione politica e cooperativa dell’Europa avrebbe ben potuto tentare altre vie, molto più adeguate come “mezzo al fine”: prima la Confederazione che unificasse politica estera e della difesa, ponendo la basi sia per un bilancio comune operativamente sensato che per un’armonizzazione continuamente concordata – cioè coordinata in modo utile e dinamico- delle stesse politiche economiche.

L’UNIFICAZIONE TEDESCA
Il punto di svolta, in cui si è persa questa “buona fede”, è indubbiamente stato l’unificazione tedesca: alla premessa, in gran parte esatta (evitare l’automatica riproposizione di una egemonia continentale e i conflitti che ne sarebbero potuti seguire), si è fatta conseguire una soluzione causalmente inadeguata e priva persino di nesso logico.

La verità implicita è che i banchieri hanno imposto la “loro” soluzione, ma prendendo soltanto – strategicamente e tatticamente- spunto da una emergenza politica “epocale”, ridotta a giustificazione posticcia e sostanzialmente solo volta a ripristinare il capitalismo ante crisi del ’29.

IL RAPPORTO WERNER
D’altra parte, il rapporto Werner (1971) era là, con tutte le sue contraddizioni, al tempo evidenti nella valutazione della scienza economica, ma si dovette attendere l’evento catalizzatore della Unificazione per proporre la soluzione sotto un’etichetta conveniente di “pace in Europa”, e rigenerare il liberismo in chiave istituzionale, naturalmente sovranazionale e, perciò, ingannevolmente “dispersiva” della sovranità democratica. Cioè eliminatrice dell’ostacolo nel momento in cui esso (la democrazia costituzionale), avrebbe avuto la sua massima ragion d’essere (cioè la trasposizione in un modello di governo federale democratico che annullasse, solidaristicamente, ogni nazionalismo competitivo, accuratamente nascondibile sotto la denazionalizzazione della moneta e il suo corollario di mercantilismo competitivo, non correggibile ma, anzi, incentivato).

Questo è un punto ancora non ben esplorato nel dibattito generale.

L’ORDOLIBERISMO “REALE”
Chi aveva “circondato” Mitterand e lo aveva persuaso dello strumento “moneta unica” in tutte le sue proiezioni applicative, credeva evidentemente che l’oligarchia finanziaria avrebbe governato con una solidarietà di classe transnazionale e che, controllando dalla nascita il processo mediante la cooptazione alla causa dei partiti di sinistra, attrezzati per vocazione all’internazionalismo, ciò sarebbe passato come “inavvertito” alle masse.

È nato così l’ordoliberismo “reale”, evolutivo delle prime grezze soluzioni thatcheriane; fenomeno, allo stato puro di realizzazione, che è solo europeo.

Il calcolo, finora, si è rivelato esatto, grazie al controllo mediatico-culturale-accademico: la cornice di sinistra ha consentito una inusitata “tenuta” a tutto il disegno.

Ed è questa la parte in cui ha senso l’ammissione di Fassina che il fallimento dell’euro sarebbe per loro una sconfitta.

Ma, a ben vedere, l’errore logico e propagandistico iniziale, cioè il pretesto ufficiale, sta proprio nella incoercibilità della Germania.

È dura doverlo ammettere proprio mentre la Germania sta celebrando una vittoria (naturalmente egemonica) che si proietta (per la terza volta in un secolo) come disastro economico del continente (mediaticamente occultato solo in Europa): anzi la ripetitività (frattalica) di questo esito è forse l’unico elemento capace di fornire una spinta reattiva a un Continente ottusamente de-democratizzato.

I VALORI DA RECUPERARE
Ma, ripeto, per dare una forza effettiva a questa spinta occorrono recuperi di realismo politico e di consapevolezza storica che in Italia sono veramente troppo lontani dall’emergere con la dovuta energia.
L’idea del sindacato come causa della ingovernabilità del processo produttivo efficiente, l’idea della corruzione come caratteristica intrinseca dell’intervento dello Stato (senza riflettere sull’alternativa concentrazione della ricchezza che determina assecondare tale idea), del clientelismo come modalità delle classi politiche elettive (la casta), sono addirittura ora massimamente esaltate, in una sorta di cupio dissolvi della democrazia che ha rinunziato ad ogni memoria delle (agevoli) soluzioni correttive che la Costituzione racchiudeva già in sè.

UN TRAGICO EPILOGO
L’epilogo non potrà che essere tragico: se gli uomini vivono nell’oscurità, non produrranno altro che ulteriori ferite a se stessi come comunità, e la “correzione” non potrà altro che conseguire alla disperazione generale, intesa proprio come mancanza di altre speranze (che non siano reagire). Cioè uno stato traumatico finale. Altrimenti l’atteggiamento elettorale e, più in generale, socio-culturale, di paesi come Grecia e Portogallo non sarebbe spiegabile. E solo la densa “oscurità”, vera e propria “Notte della Repubblica“, in cui versa l’Italia, può altresì spiegare come il Paese più grande e che ne riceve i più grandi danni sia ostinatamente “istituzionalizzato” nel perseguire la propria autodistruzione.


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